La nuova emigrazione giovanile: "viaggiare allarga la mente, ma così l'Italia spreca i suoi talenti"
Fabrizio Tonello, docente del dipartimento di Scienze politiche dell'università di Padova, riflette sui dati dell'ultimo rapporto della fondazione Migrantes e sulla nuova emigrazione giovanile, tra luci e ombre: «I giovani devono fare un'esperienza di studio all'estero, si scopre l'Europa, si scopre se stessi». E sui laureati che vanno via per mancanza di prospettive: «L'Italia non investe e non valorizza i talenti. Dopo anni di sacrifici per un titolo, è giusto cercare altrove dove c'è ambizione e retribuzione».
Italiani sempre più lontani dall’Italia, soprattutto giovani con lauree e specializzazioni.
Secondo il rapporto Italiani nel mondo 2016, lo scorso anno sono 107.529 i connazionali che hanno deciso di trasferirsi all’estero.
Nel quadro generale emerge, inoltre, che al 31 dicembre 2015 il numero degli iscritti all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) ha toccato quota 4.811.163, un incremento del 3,7 per cento rispetto all’anno precedente che ha portato, in dieci anni, la mobilità italiana ad aumentare del 54,9 per cento.
Ma che valutazione dare a questi dati? Fabrizio Tonello, docente del dipartimento di Scienze politiche dell’università di Padova, ridimensiona l’allarmismo
«Il rapporto Migrantes è un lavoro eccezionale, ma c’è un po’ di ingenuità nel presentare i dati e interpretarli. Le iscrizioni all’Aire solitamente non avvengono quando si arriva nel nuovo paese, ma solo dopo essersi stabilizzati, avendo trovato un lavoro fisso, avendo comprato casa o messo su famiglia. Quindi tra i 100 mila iscritti del 2015 ci sono sicuramente italiani che da anni hanno scelto di vivere lontano dall’Italia. I dati senz’altro ci mostrano un trend in crescita, ma lo sappiamo da 15 anni che il flusso migratorio verso l’estero è aumentato».
Tra coloro che decidono di partire ci sono sempre più studenti. È una fuga forzata o una scelta fatta per curiosità e ambizione?
«La cosiddetta “generazione Erasmus” non pensa che l’Italia finisca al Brennero, ma che arrivi fino a Copenaghen. Soprattutto negli ultimi anni, una fascia di universitari parte, sta nove mesi all’estero e poi torna non solo con degli esami superati, ma con la scoperta contemporanea dell’Europa e di se stessi, di quello che si vuole davvero fare. È prima di tutto un momento di passaggio all’età adulta, cosa che in Italia viene poco considerato perché si studia nella propria città, stando ancora in famiglia, e questo è diseducativo. Ricordiamoci la libera circolazione all’interno dell’Unione europea: tecnicamente si può vivere a Madrid e portare la biancheria sporca a casa ogni 15 giorni».
Non mancano però laureati che, non avendo prospettive, decidono di trasferirsi. E l’Italia, in tutto questo, rimane a guardare?
«Si dimentica che dal 2008 c’è di mezzo la crisi che, all’interno del mercato del lavoro, ha penalizzato soprattutto i ragazzi. Se c’è un'emigrazione di giovani laureati è perché il paese non cresce e non fa investimenti. Questo non valorizza i talenti di cui potremmo disporre e, così, un ingegnere con laurea e dottorato, dopo tutti gli sforzi fatti, ha solo buoni motivi per andare in un città dove la retribuzione è più alta. I ragazzi si spostano perché l’Italia è un paese stagnante: non è una loro colpa, ma di chi sta attuando politiche di austerity».
Che sia per studio o per lavoro, l’esperienza lontano da casa è comunque una risorsa e un arricchimento?
«Tutte le esperienza all’estero sono positive, anche quelle “stagionali”, perché ci si confronta, si portano nuove idee ed esperienze innovative da poter mettere in pratica in Italia. Ma è necessario coinvolgere più ragazzi: cosa fare di quel 70 per cento dei 19enni che non va all’università e non trova risposte nel mercato del lavoro italiano? Sono necessari programmi universali che avvantaggino chi all’estero non può andare, indipendentemente dalle risorse economiche di cui si dispone».