Una pentola a pressione. La relazione tra terremoti appenninici ed emissione di anidride carbonica
Il team di studiosi italiani è giunto a tali conclusioni analizzando una serie temporale di dati di ben dieci anni.
Prevedere i terremoti per limitarne al massimo le conseguenze. Già, ma come fare? Gli studiosi continuano a ricercare eventuali “segnali” affidabili e univoci che preannunciano un evento sismico. Fin qui – va ricordato – con poca fortuna.
Ma potrebbe esserci una novità, almeno per il territorio italiano. Pare, infatti, che i terremoti che di frequente colpiscono l’Appennino siano correlati alla risalita di anidride carbonica dalle profondità della crosta terrestre. È quanto afferma un recente studio (pubblicato su “Science Advances”), realizzato da Giovanni Chiodini, Francesca Di Luccio, Guido Ventura dell’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) e Carlo Cardellini, dell’Università degli Studi di Perugia. Il team di studiosi italiani è giunto a tali conclusioni analizzando una serie temporale di dati di ben dieci anni, fornendo così alla comunità scientifica nuovi elementi non solo sui possibili eventi di innesco dei terremoti, ma anche sul ciclo globale del carbonio.
Il base al suo consolidato modello interpretativo, questo ciclo prevede infatti che i carbonati (sali molto comuni, contenuti in minerali e rocce) abbiano assorbito, in un lontano passato, l’anidride carbonica contenuta nell’atmosfera. Lungo le ere geologiche, poi, le trasformazioni tettoniche tendono a spostare questi sali minerali nelle profondità della crosta, dove possono liberare l’anidride carbonica accumulata. Essa può così raccogliersi in serbatoi sotterranei, sotto pressione, oppure disciogliersi nelle falde acquifere. Da qui, può poi ritornare verso la superficie, attraverso sorgenti d’acqua o altre vie che si aprono negli strati rocciosi, per esempio nei sistemi di faglie lungo le quali si generano i terremoti.
Ed è proprio a quest’ultima modalità di rilascio di CO2 che gli studiosi hanno riconosciuto alta plausibilità, osservando come nelle regioni ad alta attività sismica si misurino elevati tassi di rilascio di anidride carbonica, come del resto già evidenziato anche da alcuni studi condotti in passato. Ma la conferma di una correlazione stringente tra i due fenomeni richiedeva necessariamente l’analisi di una serie temporale di dati sufficientemente lunga.
Per questo, Chiodini e i suoi colleghi hanno deciso di analizzare il contenuto di anidride carbonica registrato dal 2009 al 2018 nell’acqua delle sorgenti alimentate da due grandi falde acquifere situate vicino all’epicentro del devastante terremoto dell’Aquila del 2009. Così facendo, i ricercatori hanno scoperto che le variazioni della concentrazione di gas nell’acqua di sorgente erano strettamente correlate al numero e all’intensità dei terremoti nel tempo.
Dato questo che suggerisce un’ipotesi precisa: i sismi di questa regione potrebbero essere innescati proprio da un incremento della pressione dell’anidride carbonica, probabilmente sostenuto da un meccanismo di “rinforzo” (dal momento che gli stessi terremoti possono a loro volta liberare ulteriore anidride carbonica), che può dare origine alle scosse di assestamento.
“Come parte di un recente progetto finanziato dall’Ingv – spiega Chiodini – prevediamo di installare un sistema di misurazione continua delle emissioni di anidride carbonica che speriamo possa essere utile per comprendere meglio il rapporto causale con la sismicità e monitorare i terremoti. Inoltre, i nostri risultati indicano che lo studio delle acque sotterranee in aree tettonicamente attive sarebbe un potente strumento per stimare meglio il budget globale delle emissioni tettoniche di CO2 nell’atmosfera”.