Perché il male? In un libro di Cattorini le inquietanti domande sulle origini della sofferenza
L’autore suggerisce che la presenza del male non può essere unicamente legata alla debolezza umana, ma a qualcosa di più profondo
Il grande problema del male è al centro non solo del dibattito della teologia, ma anche delle inquiete domande di ognuno di fronte alla sofferenza.
Paolo Marino Cattorini, filosofo e già docente di Bioetica Clinica, affronta con Perché il male. La trascendenza di Dio (EDB, 146 pagine, 16 euro) questo abissale interrogativo. Lo fa ripercorrendo l’antico cammino delle interpretazioni dell’Antico e Nuovo Testamento, della filosofia, di Agostino, di san Paolo e molto altro.
Il male è una antica questione che sfiora anche interpretazioni lontane dalle fonti citate, ad esempio le tesi dualistiche e manichee, secondo le quali il bene (lo spirito) e il male (la materia) sono due principi radicalmente distinti. Ma, al di là di ogni pretesa ideologica, la figura di Cristo si staglia come presenza risolutiva: egli è immagine reale del Dio che redime attraverso il suo sacrificio e che è “un Dio della vita” perché condivide la sofferenza degli altri. E’ questo il fondamento di un bene che è tale perché azione reale di aiuto e fraternità e non solo teoria astratta.
La tentazione di ricorrere a giustificazioni unicamente razionali è destinata ad insabbiarsi di fronte al limite della parzialità delle interpretazioni e di ragionamenti sottili che rischiano di diventare fini a se stessi. Fa bene Cattorini a mettere in evidenza come alcune teorie sul male siano contrassegnate dalla parzialità del punto di vista, e di approfondire un tema piuttosto importante, che anche lo psicoanalista Massimo Recalcati ha messo in evidenza nel suo ultimo lavoro: la presenza del desiderio del bene che lega Padre e creatura.
Si arriva così all’enigma di un male che esiste nonostante la fede in quella paternità amorevole. Perché questo amore oltrepassa i limiti della umana comprensione e si inoltra, come nell’episodio narrato da Luca, della stessa ricompensa consegnata ad operai che sono stati chiamati al lavoro in tempi diversi, nel mistero di un concetto di giustizia, quella divina, assai differente da quella della ragione umana.
Ma proprio perché il punto di vista umano è limitato, l’autore suggerisce che la presenza del male non può essere unicamente legata alla debolezza umana, ma a qualcosa di più profondo. E qui si apre una questione che investe la responsabilità divina fino a presentare l’ipotesi che il male possa “esistere prima dell’inizio dell’attività di YHWH”.
Ecco quindi il profilarsi di inquiete domande nel percorso umano: Dio permette il male? O il male è un enigma che ha a che fare con la stessa essenza divina e rappresenta la tentazione a ripiegarsi su se stesso rinunciando a accompagnare l’uomo per la sua strada terrena? O forse Dio si comporta come un medico che non avendo una medicina-soluzione per ogni patologia può solo piangere “assieme a noi che piangiamo”?
Fa bene l’autore a individuare i limiti delle teorie citate e a ricorrere alla dimensione dell’icona attraverso la mediazione di J. L. Marion (anche se altri, tra i quali Florenskij ed Evdokimov, hanno offerto fondamentali interpretazioni sul fascino della apparente semplicità dell’icona): rivolge silenziosamente su sé l’attenzione di chi guarda, e nello stesso tempo è essa stessa che guarda, guidando nel passaggio della soglia tra il visibile e l’invisibile.
L’abbandono a Dio è uno dei modi per ritrovare il senso primigenio dell’esistenza anche quando, come nel Salmo 22, tutto sembra perduto.