Narrare l’abisso. A duecento anni dalla nascita di Dostoevskij i suoi personaggi appaiono straordinariamente attuali
I suoi personaggi, quando arrivano alla fede, lo fanno nel dolore per sé e per gli altri, nella consapevolezza che solo il dono dell’Altro e quello di sé possono conciliare quella sofferenza con la felicità.
Fëdor Michailovič Dostoevskij nasceva duecento anni fa a Mosca, in una Russia imperiale in cui nostalgie di grandezze passate si mescolavano a turbamenti religiosi e alle nuove ideologie materialistiche con cui, soprattutto il nichilismo, il grande scrittore avrebbe fatto salati conti. Perché farebbe assai bene leggere, se non tutte, almeno alcune delle sue opere? La risposta è che quelle narrazioni non nascondono il versante opposto alla fede, non fanno finta di non vedere la violenza spesso gratuita, la prepotenza, il dubbio, il cedimento, l’autodenigrazione. Non regalano un’immagine idilliaca della strada religiosa che poi, a metà del secolo seguente sarebbe stata sbarrata dall’olocausto, dalla uccisione programmata di bimbi, oltre che di anziani, donne, portatori di handicap, per il fatto stesso di esserci. Semplicemente. Per questo l’autore dei “Fratelli Karamazov” dovrebbe essere letto ancora e a maggior ragione oggi, perché non giustifica, ma indaga gli aspetti più innominabili dell’animo umano, le tentazioni della superiorità amorale, la lussuria fine a se stessa, o, al contrario, l’abbandono e il senso di colpa.
Solo dopo essere passati per quelle strettoie alcuni dei suoi personaggi riescono ad arrivare alla luce, una luce che conserva la coscienza del buio, l’unico modo, sembra dire Dostoevskij, di essere davvero tangibilmente e provvisoriamente felici. Non il raggiungimento, ma il passaggio, il sapere nel dopo che nel prima della sofferenza una luce ci attendeva e noi non lo speravamo più.
I suoi personaggi, quando ci arrivano, alla fede, lo fanno nel dolore per sé e per gli altri, nella consapevolezza che solo il dono dell’Altro e quello di sé possono conciliare quella sofferenza con la felicità. E con il senso finale dell’esistenza.
Anche perché Dostoevskij massacra letteralmente la vecchia letteratura, presentando non più damine incipriate ed eroi a tutto tondo, ma persone malate dentro. “Sono un uomo malato… sono un uomo cattivo. Un uomo che non ha nulla di attraente” è lo sconcertante inizio di “Ricordi dal sottosuolo” (altre traduzioni recitano “Memorie…”) uscito nel 1864, che presenta in anticipo sui tempi un protagonista al negativo, non un atletico risolutore di problemi, come nella narrativa del tempo: e, si guardino le date, piuttosto in anticipo su un Freud che nel 1927 doveva ammettere, parlando dei “Fratelli Karamazov”, che perfino la sua creatura, l’analisi, “deve deporre le armi” di fronte ad “uno dei vertici della letteratura universale, un capitolo di bellezza inestimabile”.
L’autenticità del percorso di fede del russo è provata anche da un altro aspetto: la sua stessa vita. Messo di fronte ad un plotone d’esecuzione e graziato all’ultimo minuto (e questo aggravò i suoi problemi di epilessia), spedito ai lavori forzati in Siberia di cui rimane testimonianza in “Memorie da una casa di morti”; travolto dal vizio del gioco nei suoi numerosi soggiorni in Europa, (le sue lettere, ora pubblicate da Il Saggiatore, a cura di Alice Farina, documentano quell’ossessione e le continue richieste di denaro), sposato due volte e bersagliato dalle disgrazie (come la morte della prima moglie nel 1864), Dostoevskij è l’uomo più adatto a testimoniare la fede come continua, dolorosa, incessante ricerca di Dio come senso finale. Talmente sincero e consapevole che quando nell’”Idiota” narra le vicende di un uomo assolutamente “bello”, nel senso di splendore interiore, ai suoi giorni, lo destina alla sconfitta e all’emarginazione. Una fede che è passata attraverso gli scogli del dubbio, della derisione, del dolore, e per questo tanto più abissalmente sincera.