Almeno 10 mila lavoratori agricoli migranti vivono in 150 insediamenti informali in Italia

Rapporto di ministero del Lavoro e Anci. Sono 608 i comuni dove è stata rilevata la presenza di lavoratori stranieri occupati nel settore agroalimentare. Il Sud è l’area dove complessivamente si registra il più alto numero di comuni che dichiara la presenza di lavoratori migranti, ma si trovano al Nord le due regioni dove si riscontra il numero più alto di comuni che dichiarano la presenze di braccianti agricoli stranieri (Piemonte e Lombardia)

Almeno 10 mila lavoratori agricoli migranti vivono in 150 insediamenti informali in Italia

Almeno 10 mila lavoratori agricoli migranti vivono in insediamenti informali in Italia. Luoghi di privazione dei diritti e sfruttamento, in molti casi presenti da diversi anni, privi di servizi essenziali e di servizi per l'integrazione. È l'evidenza più critica del Rapporto “Le condizioni abitative dei migranti che lavorano nel settore agroalimentare” pubblicato oggi dal ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dall’Associazione nazionale dei Comuni Italiani (Anci) nell’ambito del Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato 2020–2022.
L’indagine ha consentito al ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali di individuare anche le amministrazioni locali destinatarie dei 200 milioni di euro del Pnrr investiti con l’obiettivo di superare questi insediamenti.

Il Rapporto, realizzato dalla Fondazione Cittalia dell’Anci, presenta i risultati di un’indagine senza precedenti per copertura nazionale e ampiezza di restituzione. La metà dei Comuni italiani ha compilato un questionario su presenze, flussi, caratteristiche dei lavoratori agricoli migranti e sistemazioni alloggiative: dalle abitazioni private e strutture, temporanee o stabili, attivate da soggetti pubblici o privati, fino agli insediamenti informali o spontanei non autorizzati. Sono stati censiti anche i servizi a disposizione degli ospiti, così come gli interventi per l’inserimento abitativo promossi dai Comuni stessi.

“Solo la rilevazione omogenea di informazioni dettagliate su tutto il territorio nazionale, infatti, può consentire la pianificazione di interventi efficaci, mirati e monitorabili anche nell’ottica dell’ottimizzazione e della sostenibilità delle risorse – afferma una nota del ministero -. Attraverso la conoscenza del fenomeno è possibile realizzare interventi che coinvolgano in maniera coordinati e sinergica i diversi livelli di governo, ed è questo lo scopo finale della ricerca presentata in questo rapporto”.
Nonostante il sostegno costante dell’help desk dedicato, molti Comuni hanno rappresentato le loro difficoltà a delineare con precisione alcuni dati richiesti. In numerosi casi, attraverso e-mail, telefonate e compilando lo spazio riservato alle considerazioni libere nel questionario, le persone che si sono occupate della compilazione hanno espresso diverse difficoltà ad arrivare a una stima puntuale del numero di migranti presenti sul loro territorio e, successivamente, alla stima della loro distribuzione di genere e a quella secondo la regolarità dei permessi di soggiorno.

“Il primo risultato di questa indagine è stato infatti quello di aver contribuito a diffondere in maniera capillare la consapevolezza di una problematica diffusa e spesso ignorata o sconosciuta – continua la nota -. Si tratta, frequentemente, di fenomeni legati anche alla stagionalità dei raccolti e ai flussi di migranti, quindi mutevoli e di complessa rilevazione. I risultati presentati in questo report sono da considerarsi quindi particolarmente preziosi, frutto di impegno e coordinamento e sono d’auspico per una sempre migliore conoscenza del fenomeno”.
Tutto il territorio nazionale è stato coinvolto nella rilevazione, e nonostante la complessità dei dati richiesti e le difficoltà incontrate nel reperire informazioni su un argomento mai trattato in precedenza, circa il 70% dei Comuni individuati come potenzialmente interessanti dalla presenza di lavoratori stranieri occupato nel settore agro-alimentare (“super-prioritari”) e quasi la metà di tutti i Comuni italiani ha risposto al questionario e questo primo dato dimostra una generale volontà delle amministrazioni locali a mettere in atto azioni concrete per contribuire a colmare il gap informativo sul fenomeno.
Sono 608 i Comuni dove è stata rilevata la presenza di lavoratori stranieri occupati nel settore agroalimentare. Il Sud è l’area dove complessivamente si registra il più alto numero di Comuni che dichiara la presenza di lavoratori migranti occupati nel settore agroalimentare sia stagionali che di lunga durata, tuttavia è sbagliato ritenere che ci siano aree totalmente estranee al fenomeno: si trovano al Nord, infatti, due regioni dove si riscontra il numero più alto di Comuni che dichiara la presenze di braccianti agricoli stranieri (Piemonte Lombardia) e Cuneo risulta essere la Provincia con il maggior numero di strutture alloggiative, temporanee o stabili attivate da soggetti pubblici o privati, nelle quali vivono questi lavoratori. “Pur considerando differenze e peculiarità, possiamo indubbiamente constatare che questa realtà, spesso ricondotta esclusivamente ad alcuni territori, interessi in verità tutto il territorio italiano e che per tale ragione sia necessario, per pianificare interventi strategici, continuare a porre attenzione alla dimensione nazionale e complessiva del fenomeno”, si afferma nel rapporto.

I dati e le informazioni raccolte nel corso della rilevazione ci restituiscono un’immagine articolata e complessa delle tematiche, che permettono di fare alcune considerazioni: se è vero che è importante porre particolare attenzione ai territori con alte presenze di lavoratori stranieri impiegati nel settore agricolo, questo non significa che tali presenze indichino automaticamente l’esistenza di una condizione critica. Confrontando i dati relativi alla distribuzione per Regioni dei Comuni che dichiarano la presenza o assenza di lavoratori stranieri occupati nel settore agro-alimentare con quelli che indicano la presenza di insediamenti formali e informali, si riscontra che non c’è una diretta rispondenza fra le presenze di lavoratori e quelle di insediamenti informali. Il Piemonte, ad esempio, risulta essere la Regione con il maggior numero di Comuni che ha dichiarato presenze stabili e/o stagionali di lavoratori migranti nel settore ed è anche la Regione con il maggior numero di Comuni con insediamenti formali, mentre sono presenti solo 2 Comuni con insediamenti informali. La Lombardia, seconda Regione per presenze stabili e/o stagionali, compare solo all’ottavo posto per numero di Comuni con insediamenti formali e non presenta insediamenti informali.

Queste considerazioni vanno accompagnate e incrociate ad ulteriori elementi scaturiti dall’indagine a partire dal fatto che nella maggioranza dei casi (78,8%) i lavoratori migranti occupati nel settore agricolo vivono in abitazioni private e in poco meno del 22% dei Comuni sono invece presenti strutture alloggiative temporanee o stabili attivate da soggetti pubblici o privati e/o insediamenti informali.

Le strutture alloggiative

Per quanto riguarda le strutture alloggiative temporanee o stabili attivate da soggetti pubblici o privati, dove secondo le stime trovano alloggio circa 7 mila lavoratori agricoli migranti (in prevalenza rifugiati/richiedenti asilo), si rileva che nella maggioranza dei casi si tratta di abitazioni riconducibili ad appartamenti della rete SAI/SIPROIMI/SPRAR (44%), ai Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) (10,3%) o agli appartamenti messi a disposizione da realtà/associazioni del Terzo Settore/ volontariato (14%).
Si tratta quindi prevalentemente di strutture stabili/permanenti localizzate in aree urbane e gestite dal Terzo settore, solo una minima parte (circa il 20%) degli alloggi formali ha carattere temporaneo e ospita quindi i lavoratori stagionali che si spostano in base al ciclo delle colture. La maggior parte delle strutture dichiarate, infatti, è presente sul territorio comunale da più di 4 anni (73,7%) e trattandosi prevalentemente di strutture alloggiative stabili, nella quasi totalità dei casi sono presenti i principali servizi essenziali (acqua potabile, energia elettrica, servizi igienici, ecc.) e risulta altresì presente nelle vicinanze degli alloggi una buona copertura di collegamenti di mezzi pubblici (77%).

Confrontando i dati emersi, un elemento particolarmente critico da segnalare riguarda il fatto che anche molti degli insediamenti informali, esattamente il 41,3% dei casi, ha carattere stabile/permanente. La maggior parte degli insediamenti informali mappati, infatti, è presente sul territorio comunale da parecchi anni: ben 11 insediamenti esistono da più di 20 anni, 7 insediamenti sono presenti da oltre 10 anni e 16 da oltre 7 anni. “Si tratta dunque di un fenomeno fortemente cristallizzato all’interno di molte realtà comunali e pur avendo un carattere prevalentemente stabile, nella maggior parte dei casi, non sono presenti servizi essenziali e all’interno degli insediamenti, dove sono state stimate oltre 10.000 persone presenti, le condizioni di vita risultano estremamente precarie”, si afferma.
Molto scarsa (meno del 30% dei casi) risulta essere la presenza nelle vicinanze degli insediamenti informali di servizi pubblici di trasporto: questo dato, confrontato con le stime sul raggio territoriale degli spostamenti dei migranti, risulta essere particolarmente significativo, soprattutto in considerazione del rischio di ricorrere a caporali e trasporti inadeguati. Sono infatti superiori al 40% gli insediamenti informali che si trovano oltre i 10 chilometri di distanza dai luoghi di lavoro e, fra questi, quasi il 10% è distante oltre 50 km.

La mancanza di servizi

“Se i servizi essenziali, negli insediamenti informali, sono scarsamente presenti, gli interventi sociosanitari e, più in generale, tutti quelli finalizzati a favorire l’integrazione dei migranti, risultano praticamente assenti – si legge -. Ed è comprensibile ipotizzare che la mancanza di servizi possa tradursi frequentemente in mancanza di prospettive: è difficile immaginare che possano avvenire cambiamenti sostanziali se sono completamente assenti servizi di supporto e orientamento”. Questa considerazione risulta essere ancora più rilevante se si tiene presente che in oltre un insediamento su 5 abitano nuclei familiari con minori e che circa il 30% delle persone che vivono negli insediamenti informali sono rifugiati/richiedenti asilo.

“La situazione risulta essere completamente diversa se si prendono in considerazione gli interventi messi in atto negli insediamenti formali, dove nella maggioranza dei casi sono presenti tutti i servizi finalizzati a favorire l’integrazione dei migranti, oltre agli interventi socio-sanitari. In oltre il 70% delle strutture alloggiative temporanee o stabili attivate da soggetti pubblici o privati dove si riscontra la presenza di lavoratori stranieri occupati nel settore agro-alimentare sono attivi servizi di mediazione culturale e assistenza sociale, così come, seppur in maniera più circoscritta, servizi e interventi legati al mondo del lavoro (formazione professionale, rappresentanza sindacale, lotta al lavoro nero/caporalato)”.

Insediamenti informali e caporalato

Anche la segnalazione relativa ai casi che riguardano gli episodi di caporalato mostrano che la situazione è più critica negli insediamenti informali (nel 25,8% dei casi) che in quelli formali (10,4%). “Per quanto concerne la valutazione da fare su questo dato bisogna considerare inoltre che, proprio in virtù dei maggiori servizi di tutela e assistenza presenti negli insediamenti formali, sia più agevole rilevare casi critici. Si potrebbe ipotizzare quindi che in molti insediamenti informali potrebbero avvenire con maggiore probabilità casi di caporalato sommerso e non rilevato”.

Gli interventi dei comuni

I risultati della mappatura indicano, inoltre, che in diversi Comuni la strada disegnata dal Piano triennale sia già stata intrapresa ma che per la maggior parte delle realtà locali sia ancora tutta da percorrere. In particolare, i Comuni, in prossimità delle competenze più proprie, risulta abbiano promosso interventi per favorire l’accesso alla casa o la realizzazione di insediamenti abitativi volti ad ospitare lavoratori stranieri occupati nel settore agro-alimentare.
Negli ultimi 3 anni, dei 608 Comuni che hanno dichiarato la presenza di migranti impiegati nel settore agro-alimentare in 54 (8,9%) hanno realizzato interventi riconducibili alla riqualificazione di immobili pre-esistenti o all’edilizia residenziale pubblica. “In prospettiva futura, sempre su questo versante, risulta interessante rilevare che dalle risposte dei Comuni è emerso che il numero complessivo di spazi presenti sui propri territori destinabili ai migranti che lavorano nell’agro-alimentare supera le mille unità e che potrebbero arrivare ad ospitare complessivamente più di 6 mila persone”. Infine, 14 Comuni hanno dichiarato inoltre di aver elaborato almeno uno studio di fattibilità volto alla realizzazione di alloggi destinati ad ospitare lavoratori migranti e 28 hanno espresso la volontà di elaborare a breve tali progetti di fattibilità.

“Questi dati dimostrano che inizia a diffondersi una buona consapevolezza delle criticità territoriali e una forte necessità di agire in modo efficace e coordinato. Come è stato più volte sottolineato in precedenza, i fenomeni di sfruttamento lavorativo e caporalato non sono né territorialmente circoscritti né recenti. Sono problematiche afferenti a ‘schemi mentali, prima ancora che produttivi, ben definiti e radicati’ – si legge -. L’immigrazione non ha generato questa situazione ma la sta trasformando e caratterizzando attraverso una progressiva sostituzione degli autoctoni sia sul versante dei lavoratori che su quello dei caporali6portando a un conseguente innalzamento dei margini di profitto e producendo quella che è stata definita ‘la più grande mutazione antropologica’ degli ultimi decenni nel Mezzogiorno d’Italia. Secondo gli studi di Leogrande la prioritaria caratteristica delle trasformazioni che stanno avvenendo in questo ambito è indotta dal fatto che i migranti sono considerati estranei al contesto sociale e abitativo dei territori e quindi non godono del sostegno e del rispetto collettivo. I trattamenti riservati ai migranti ‘non si sarebbero mai potuti imporre al bracciante locale. Perché, anche nei paesi pugliesi dove il caporalato classico persiste, caporali e braccianti finiscono per essere parte della stessa comunità’ e questo poneva un argine al peggior sfruttamento. Emerge, dunque, ‘la centralità stessa della segregazione spaziale-abitativa rispetto allo sfruttamento del lavoro’ dove la ‘sistemazione spaziale rafforza la sovrapposizione di lavoro, tempo libero, riposo e più in generale la riproduzione della vita quotidiana di un individuo o di un gruppo in un unico luogo’”.

 Daniele Iacopini

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)
Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)