Adolescenti. Ascoltarsi davvero significa "incontrarsi", uscire dai recenti del proprio ego e trovare l'altro
Quando un ragazzo ci parla non bisogna mai commettere il grave errore di decontestualizzare il contenuto che passa attraverso le parole.
Nella sezione “buoni propositi” del mese di settembre dell’agenda educativa di genitori e insegnanti bisognerebbe evidenziare in rosso, tra le priorità, la parola “ascolto”.
Prima di lasciare che il fiume della nostra esistenza torni a orientare il suo flusso in anse note e non sempre salubri, sarebbe il caso di apportare delle piccole correzioni (o addirittura deviazioni, se ne troviamo il coraggio!) affinché le acque visitino anche quegli argini in evidente stato di abbandono.
Perché la parola “ascolto”? Perché tutto parte da lì.
Ascoltarsi davvero significa “incontrarsi”, uscire dai recinti del proprio ego e trovare l’altro.
L’ascolto è un esercizio che quotidianamente pratichiamo, ma può essere prestato a vari livelli e di questo non siamo del tutto consapevoli.
Se il vulnus nella relazione genitori-figli e docenti-discenti è il demone dell’incomunicabilità, come spesso siamo portati a sostenere, il baco è evidentemente nella pratica dell’ascolto e si chiama fraintendimento.
E’ veramente difficile ascoltare profondamente qualcuno, anche se ci disponiamo a farlo con le migliori intenzioni. L’ascolto è una competenza che passa attraverso un complesso sistema di decodifica. Nelle parole dell’altro ci sono contenuti emotivi che non sempre riusciamo a tradurre e recepire. Inoltre, la comunicazione interpersonale avviene anche mediante un articolato sistema di scambio, che potremmo definire “primordiale”: ovvero, il codice non verbale. Ci riferiamo alla gestualità, alla mimica facciale e persino alle pause che spesso si rivelano fondamentali nello scambio tra le persone. Ecco perché la comunicazione digitale può facilmente assumere forme di grave aberrazione: è manchevole proprio di questi essenziali elementi costitutivi, che permettono alle emozioni e ai sentimenti dell’essere umano di manifestarsi.
Un buon educatore (genitore o insegnante che sia) deve saper guardare il proprio interlocutore con grande perizia, ascoltare le sue parole e interrogarsi anche sulle pause tra una parola e l’altra. Queste ultime non segnalano spazi vuoti, ma rivelano inibizioni e paure.
Siamo portati, poi – questo l’altro grande ostacolo allo scambio reale tra le persone -, a filtrare il messaggio altrui quasi esclusivamente attraverso la nostra circoscritta e soggettiva esperienza. Quando un ragazzo ci parla non bisogna mai commettere il grave errore di decontestualizzare il contenuto che passa attraverso le parole, privandolo del riferimento al suo modus vivendi e all’ambiente in cui l’individuo è cresciuto e vive.
Le parole “risuonano”, ma occorre prestare ad esse attenzione. Veicolano prevalentemente emozioni. Le analisi sociali del momento sono particolarmente allarmanti da questo punto di vista: la carenza di comunicazione ha prodotto danni “culturali”.
Nell’antichità l’identità di un popolo, e quindi anche della singola persona, passava attraverso l’oralità. Con i racconti del passato e anche quelli familiari si costruiva la coscienza etica e si trasmetteva il patrimonio dei valori di riferimento. Questo compito oggi è stato delegato alla televisione, prevalentemente, e negli ultimi anni anche alla rete. Abbiamo permesso che i media educassero i nostri figli.
Peccato che la comunicazione dei media sia gestita in maniera indiscriminata e sia disseminata di distorsioni e falsità, nonché di “verità” che andrebbero somministrate alle giovani generazioni con un minimo di “posologia”.
Soprattutto, però – avvertono gli psicologi -, la comunicazione assorbita attraverso i media è priva di spessore sentimentale. Esiste un gradino fondamentale fra emozione e sentimento, e quel gradino è proprio il terreno di una efficace azione educativa.
E’ lavorando quell’humus, quando ancora siamo in tempo, che si forgia l’essere umano. Settembre, dunque, sia propizio all’aratura e alla semina “sentimentale”!