Una collaborazione leale tra politica e magistratura
La giurisprudenza della Corte costituzionale, a partire da un’analisi sistematica della Carta, ha enucleato il principio della “leale collaborazione” tra poteri
Quando ciclicamente si riaffaccia nel dibattito pubblico il tema dei rapporti conflittuali tra politica e magistratura, si è soliti ricondurre ai tempi di Tangentopoli e dell’inchiesta Mani pulite l’inizio di questo filone, tra i più delicati per la vita di una democrazia. L’innesco può essere di volta in volta l’indagine di qualche procura che arriva a coinvolgere personalità politiche o, viceversa, un’iniziativa legislativa che interviene a regolamentare l’amministrazione della giustizia, suscitando reazioni negative tra i magistrati, in particolare all’interno delle loro associazioni. Da trent’anni a questa parte la materia del contendere è più o meno sempre la stessa: ciascun soggetto rimprovera all’altro un’indebita invasione di campo. A rigore, la risposta potrebbe essere estremamente lineare. Che ai politici competa fare le leggi e ai giudici applicarle, è un’affermazione su cui in teoria nessuno dovrebbe avere alcunché da obiettare. E ci mancherebbe. Il problema è che poi la realtà è molto più complessa delle idee e nella concretezza delle situazioni i confini non sono così nitidi come si vorrebbe. Diciamo pure – a costo di far storcere qualche naso – che una certa dialettica può essere persino considerata fisiologica: non si tratta di una tesi rivoluzionaria ma della più classica interpretazione della democrazia liberale, da Montesquieu in poi, secondo cui è necessario che il potere limiti il potere. Pesi e contrappesi, come insegna la lezione del costituzionalismo anglosassone. Guardare al di fuori dei nostri confini aiuta a evitare strumentalizzazioni o indebiti arruolamenti in uno dei due fronti. Così non si può non sottolineare come anche in Europa la crisi di alcune democrazie si sia manifestata principalmente nei termini di un controllo del potere politico sulla magistratura. E’ sempre questo il primo passo quando si accende la tentazione autoritaria. Però anche la magistratura può provocare sfracelli com’è avvenuto per esempio in Portogallo: un’omonimia in un’intercettazione telefonica e un errore di trascrizione da parte della procura hanno determinato le dimissioni del primo ministro ed elezioni anticipate.
Tornando in casa nostra, non esistono soluzioni semplicistiche. Non resta che affidarci alla traccia segnata dalla Costituzione e nel solco di questa cercare di individuare percorsi il più possibile condivisi. La giurisprudenza della Corte costituzionale, a partire da un’analisi sistematica della Carta, ha enucleato il principio della “leale collaborazione” tra poteri. Poteri che devono certamente essere separati, ma anche cooperare nella prospettiva del bene comune. E’ un principio dinamico che impone la ricerca del miglior equilibrio possibile.
La magistratura fa bene a difendere la propria indipendenza. “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”, recita l’articolo 101 della Costituzione. Ma alla legge sono soggetti, non sono sopra di essa. E questo vale per tutti i cittadini perché tutti “sono eguali davanti alla legge”, secondo la solenne formula dell’articolo 3. Quindi, a loro volta, i politici non devono rivendicare zone franche in nome del mandato popolare ricevuto. Questo mandato, piuttosto, esige un di più di responsabilità e ciò vale anche per i magistrati che pure amministrano la giustizia “in nome del popolo” (ancora l’articolo 101). Per tutti vale l’articolo 54: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Perché alla fine i comportamenti contano più delle regole.