Un anno di Covid. "Ora serve la migliore versione di noi stessi"
È passato un anno. Il 21 febbraio del 2020 era una giornata di sole e nulla faceva presumere ciò che si sarebbe verificato nelle ore successive. Di Coronavirus si parlava, ma la sensazione che accompagnava la parola aveva un che di lontano ed esotico, come prima erano state la Sars, la Mers o l’Ebola.
Invece Covid-19 era già tra noi, da settimane se non da mesi. Non lo sapevamo, non ce n’eravamo accorti, ma molti di noi almeno in Lombardia e in misura minore in Veneto, erano già malati, qualcuno era già morto per una polmonite bilaterale che ancora i nostri medici non avevano associato al virus materializzatosi in forma massiccia nella metropoli di Wuhan nel dicembre 2019.
Quel giorno il ministro Speranza emanava un’ordinanza che parlava per la prima volta di quarantena per chi avesse viaggiato nelle aree già colpite e di isolamento fiduciario per chi fosse venuto in contatto con persone positive al test. La maggioranza di noi si sentiva lontano anni luce dall’eventualità. Ma nel giro di pochissime ore abbiamo scoperto drammaticamente che il virus non solo era tra noi, ma era in grado di ucciderci. Da qui le giornate drammatiche dell’ospedale di Schiavonia, chiuso per sottoporre a tampone chiunque si trovasse all’interno, medico, degente o visitatore che fosse. E poi l’escalation dei fatti tuttora in corso.
Per la Chiesa padovana è stato un anno probante. Come se lo stop improvviso delle attività avesse, almeno in un primo momento, messo in crisi l’infrastruttura stessa su cui si basa la vita di comunità, uffici, aggregazioni. Come se, privati del “fare”, ci fossimo ritrovati obbligati a confrontarci con il nostro “essere”.
«Non è il tempo del Tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è», ha detto nella storica meditazione solitaria, il 27 marzo in piazza San Pietro, papa Francesco. Ma capire che cosa è essenziale e sceglierlo con convinzione è facile solo a parole. Il discernimento nel quale siamo immersi ci chiede di metterci allo specchio come credenti, e di guardare fuori dalle finestre dei centri parrocchiali che da anni assomigliano a confort zone, luoghi di comodità, dove dubbi e pensieri non ci assalgono.
«Il futuro o è per tutti, o non è per nessuno», ci ha ricordato il presidente Mattarella nel discorso al corpo diplomatico di metà dicembre. Là fuori c’è molto da imparare per noi cristiani, ma la fuori ci sono anche molti che hanno bisogno di noi. Ma non della nostra versione tiepida e conformista. Abbiamo molto da dare e da dire, a due condizioni: che riusciamo a dare il meglio e che lo facciamo, con umiltà, insieme a tutti i nostri vicini.