Un amore che viene da molto lontano. La letteratura ha, da sempre, ammonito l’uomo ad amare il creato
La letteratura ci offre la possibilità di guardare a come l’uomo abbia da una parte dominato il pianeta e dall’altra abbia tentato di porre un limite al suo delirio di onnipotenza, anche attraverso il ricorrere, ancora oggi, al linguaggio simbolico.
“Lungi da quel modello, oggi il peccato si manifesta con tutta la sua forza di distruzione nelle guerre, nelle diverse forme di violenza e maltrattamento, nell’abbandono dei più fragili, negli attacchi contro la natura”.
“Laudato si’” rappresenta – anche per i non credenti – un nuovo punto di riferimento dell’ecologia contemporanea, e, fin dal titolo, il recupero di un evento fondamentale per la nuova sensibilità: la spoliazione di Francesco d’Assisi, la conseguente scelta di vivere in mezzo alla natura e la stesura del Cantico delle Creature. Quella scandalosa scelta di un ricco rampollo della borghese Assisi alla fine del dodicesimo secolo, che gli costò il dileggio e il rinnegamento di quasi tutti gli antichi compagni di gioventù, era in realtà la testimonianza diretta dell’uomo che aveva (ri)trovato la strada nel riconoscersi realmente creatura.
L’allontanamento dalla grande madre segna la fine della comunione edenica, l’inizio del potere antropico sul creato, della lenta devastazione del dono ricevuto. Ma non è solo il racconto di origini che ci offre questa possibilità di interpretazione del grande distacco che ci ha portato all’attuale rischio ecologico: la letteratura ci offre la possibilità di guardare a come l’uomo abbia da una parte dominato il pianeta e dall’altra abbia tentato di porre un limite al suo delirio di onnipotenza, anche attraverso il ricorrere, ancora oggi, al linguaggio simbolico. L’antropologo – e gesuita – Marcel Jousse, sosteneva che il simbolo è alla base delle manifestazioni umane, tese ad imitare “le azioni e i ritmi dell’universo”. E lo stesso Carl Gustav Jung scriveva che “ho sempre avuto la sensazione che qualcosa viva e perduri al di sotto dell’eterno flusso. Ciò che vediamo è la fioritura, che è transeunte. Il rizoma rimane”. E anche oggi una psicoterapeuta, Elena Cornacchione, con il suo “Anima e foglie” (Youcanprint) ci indica la strada della cura attraverso la riconciliazione con la grande bellezza della natura. Ecco perché nella sua poesia Emily Dickinson riesce a trasformare i boccioli, i rami, le erbe del suo angolo verde in una sorta di ritorno al Giardino originario. Anche nella narrativa americana di oggi, ad esempio in Marilynne Robinson, la natura sembra quasi rappresentare la memoria di un’antica comunione perduta ma sempre cercata nelle povere, piccole cose del prato vicino casa.
Tutta una generazione, quella chiamata beat, Ginsberg, Corso, Kerouac (che ha scritto un mitico racconto di vagabondaggio, “On the road”) ha scelto il nomadismo, la provvisorietà al posto della sedentarietà. Anche uno dei loro maestri, Thoreau, aveva preferito andarsene a vivere in un bosco presso il lago Walden in una capanna di legno costruita da lui stesso, e un altro poeta del cosiddetto rinascimento americano, Whitman, decise di andarsene in giro per gli Usa alla ricerca di una comunione antica ma perduta. E d’altronde l’ormai mitico racconto di Saint-Exupéry, “Il piccolo principe”, insegna che bisogna dire sì a questa vita, con gioia e prendendo lezioni da qualsiasi cosa, anche da un fiore, dalla sabbia del deserto. Un po’ come quello che Pascoli aveva sostenuto qualche anno prima. Anche da noi, infatti, non si è scherzato sulla essenzialità della natura: il burattino Pinocchio è di legno, un legno non pregiato, che ci fa pensare alla pietra scartata che diviene testata d’angolo, e anche al fatto che il greco “yle” non era solo il legno, ma la materia originaria, la grande Madre di tutti. E la madre è anche il fiume, una costante in Mark Twain: qui assume la dimensione simbolica e quasi religiosa dell’amnios, il liquido materno da cui ogni cosa parte per fare ritorno. Non è un caso che scrittori come Hemingway e Faulkner abbiano visto in lui un maestro: Twain aveva mostrato come nessuna teoria poteva comprendere davvero il mondo, ma solo l’esperienza della realtà naturale. La fascinazione della foresta, del deserto, del fiume o del mare non sono esotismi di maniera, ma ricordo arcaico di una comunione perduta. Un ricordo che dovrebbe ammonirci oggi sull’impossibilità di vivere senza radici.