Soccorso in mare, tutte le criticità del nuovo “decreto ong”

Secondo esperti e giuristi le norme contenute nel dl n.1/2023 sono in conflitto con le leggi nazionali e internazionali. Asgi: “Un intervento legislativo che ancora una volta nasconde la mancanza di consapevolezza del fenomeno migratorio”

Soccorso in mare, tutte le criticità del nuovo “decreto ong”

Un nuovo decreto legge per limitare l’attività in mare delle navi umanitarie delle ong. Dopo il codice di condotta ideato nel 2017 dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, nel 2020 era stata la ministra Lamorgese  col decreto-legge n. 130/2020 a porre nuovi paletti alle operazioni di soccorso. Oggi con l’entrata in vigore del nuovo decreto-legge n. 1/2023, firmato lunedì scorso dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, non si fermano le polemiche sulle norme che secondo diversi giuristi ed esperti non solo limiterebbero le attività di soccorso, ma metterebbero a rischio le vita delle persone.

Secondo l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) il dl emanato dal governo Meloni è in sostanziale continuità con una disposizione contenuta nel cosiddetto decreto Lamorgese del 2020, che già consentiva all’Esecutivo di “limitare o vietare il transito e la sosta di navi nel mare territoriale” per motivi di ordine e sicurezza pubblica in conformità alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (cd. Convenzione di Montego Bay). Divieto di transito e sosta che il nuovo dl n. 1/2023 esclude, tuttavia, nel caso di operazioni di soccorso immediatamente comunicate al Centro di coordinamento per il soccorso marittimo dello Stato nella cui area Sar di competenza ha avuto luogo  l’evento e allo Stato di bandiera della nave, e qualora ricorrano una serie di condizioni. Innanzitutto, la nave che effettua sistematicamente attività di ricerca e soccorso deve avere le autorizzazioni rilasciate dalle autorità dello Stato di bandiera e possedere i requisiti di idoneità tecnico-nautica alla sicurezza della navigazione. Inoltre, devono essere avviate tempestivamente informative alle persone soccorse della possibilità di chiedere protezione internazionale; infine, deve essere chiesta nell’immediatezza dell’evento l’assegnazione del porto di sbarco, che deve essere raggiunto senza ritardo. Alle autorità marittime o di polizia vanno poi fornite  le informazioni per ricostruire dettagliatamente l’operazione di soccorso.  Le modalità di ricerca e soccorso in mare non devono aver concorso a creare situazioni di pericolo a bordo né impedito di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco.

“Tali condizioni per gran parte erano previste prima dell’entrata in vigore del nuovo decreto-legge e sempre attuate dalle navi umanitarie, le quali contattano già immediatamente i Centri marittimi competenti per l’area marittima ove accade l’evento per avere indicazione di un porto sicuro ove far sbarcare le persone soccorse, salvo che tale indicazione provenga dalla Libia, essendo chiaramente un luogo non sicuro - spiegano i giuristi di Asgi -. Il problema nella prassi è esattamente l’inverso, cioè sono proprio detti Centri che non rispondono tempestivamente alle richieste di avere un porto sicuro o si rimpallano l’un l’altro le competenze, lasciando le navi per molti giorni in mare in attesa del porto con le persone soccorse a bordo. Parimenti, le navi umanitarie forniscono sempre informative precise delle operazioni di soccorso”.

Il porto più sicuro e più vicino?

Secondo gli esperti, dunque, sotto questo profilo il decreto-legge non prevede nulla di nuovo. Mentre altri aspetti risultano particolarmente critici: in particolare, pretendere che il porto di sbarco assegnato sia raggiunto “senza ritardo” e che le modalità di soccorso non impediscano di raggiungerlo “tempestivamente”, sottenderebbe la volontà di costringere le navi a non soccorrere persone a rischio di naufragio diverse da quelle già soccorse , “così come di impedire che le persone soccorse siano trasbordate da una nave umanitaria all’altra per consentire a una di esse di tornare a cercare persone in pericolo" metterebbe a rischio la vita delle persone.  Tra l'altro, per i giuristi questa pretesa non potrà mai avverarsi perché "qualora il comandante della nave che già ha prestato un primo soccorso venga a conoscenza di una ulteriore situazione di pericolo dovrà sempre dirigersi verso la zona e prestare assistenza in ossequio all’obbligo inderogabile di soccorso previsto dal diritto internazionale consuetudinario e pattizio e dal diritto interno”. 

La selettività del soccorso sottesa al decreto-legge non potrà mai essere interpretata, dunque, come ostativa al soccorso di tutte le persone che si trovano in mare in stato di pericolo. “La normativa internazionale è di inequivocabile lettura: lo Stato deve (e non già solo può) esigere dal/dalla comandante di una nave che agisca per prestare soccorso - spiega Asgi -.Fatte salve le valutazioni tecniche sui rischi per la sicurezza della nave nello svolgere le operazioni di soccorso non ci può essere alcun margine di scelta da parte del/della comandante di qualsiasi nave a effettuare anche diversi soccorsi qualora nel corso della propria navigazione intercetti più situazioni di pericolo”.  

Si può chiedere asilo a bordo?

Quanto, infine, alla previsione secondo cui devono essere “avviate tempestivamente iniziative volte a informare le persone prese a bordo della possibilità di richiedere la protezione internazionale e, in caso di interesse, a raccogliere i dati rilevanti da mettere a disposizione delle autorità” secondo i giuristi una simile prescrizione non può essere data ai comandanti di una nave battente bandiera di un altro Stato poiché i relativi poteri e doveri sono indicati dalla legge nazionale di quello Stato e pertanto lo Stato italiano non può imporre competenze non previste dall’ordinamento dello Stato di bandiera. Inoltre, nel caso di navi battenti bandiera italiana il/la comandante esercita funzioni di pubblico ufficiale solo con riguardo ad atti di stato civile (nascita, morte, matrimonio) e per la ricezione di testamenti sulla nave (art. 296 Codice navigazione). In termini analoghi dispone l’art. 94, par. 2 lett. b) Convenzione UNCLOS.

“La materia dell’accesso alla protezione internazionale nell’Unione europea ha una sua specifica disciplina di settore. In tutte le ipotesi, trattasi di competenze assegnate inevitabilmente quando la persona richiedente asilo si trova sul territorio italiano e certamente non su quello di altro Stato, come nel caso di navi battenti bandiera straniera - conclude Asgi -. Peraltro, la specifica preparazione professionale delle varie autorità competenti in materia di protezione internazionale non appartiene certamente a chi comanda una nave, a cui  dunque non può essere affidata la ricezione di domande di protezione internazionale che richiedono il rispetto di precise procedure amministrative. Già la Corte europea dei diritti umani nella sentenza definitiva della Grande Camera 23.02.2012 sul caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia ha affermato la necessità dell’esame della situazione individuale di ciascuna persona soccorsa, ritenendo che il personale a bordo delle navi non abbia la formazione necessaria per condurre colloqui individuali e non è assistito da interpreti e consulenti giuridici”.

Per i giuristi sarebbe vano il tentativo sotteso al decreto-legge n. 1/2023 di radicare la competenza all’esame di domande di protezione internazionale allo Stato di pertinenza della nave di soccorso. Un’ultima questione, che rimane sotto traccia nel decreto legge, riguarda se le autorità italiane possano indicare lo sbarco in un porto sicuro italiano che si trovi in zona molto lontana dall’area in cui è avvenuto il soccorso.

“La Convenzione SOLAS impone agli Stati di cooperare affinché i comandanti delle navi che hanno prestato soccorso imbarcando persone in pericolo in mare siano liberati dal loro impegno con la minima deviazione possibile dalla rotta originariamente prevista - conclude Asgi -. La Risoluzione MSC 167(78) del 20 maggio 2004 stabilisce che porto sicuro è quello del luogo in cui sono completate le operazioni di salvataggio e in cui le persone salvate possono accedere ai loro bisogni fondamentali, precisando che la nave non può di per sé essere considerata luogo sicuro anche se in grado di garantire sicurezza immediata alle persone. La stessa Risoluzione precisa inoltre che “Una nave non dovrebbe essere soggetta a ritardi ingiustificati, oneri finanziari o altre difficoltà dopo aver prestato assistenza alle persone in mare; pertanto gli Stati costieri dovrebbero sollevare la nave non appena possibile”.

In conclusione, secondo i giuristi, il decreto legge n. 1/2023 contiene disposizioni che non potranno far cessare né i gravi motivi che inducono le persone a fuggire in mare dallo Stato di origine o di transito, né le operazioni di soccorso umanitario imposto dal diritto internazionale. Si tratta dunque di “un intervento legislativo che, non si può non evidenziare, ancora una volta nasconde la mancanza di consapevolezza della fallimentare strategia italiana ed europea che persevera a negare la possibilità di ingressi regolari che consentano alle persone straniere di entrare in modo veloce e sicuro sul territorio italiano o di altro Stato dell’Unione europea con visti di ingresso per lavoro o per ricerca lavoro o per asilo o per altra motivazione prevista dalla complessa disciplina dell’immigrazione”.

L’appello delle ong che fanno salvataggio in mare: "ci saranno più morti"

18 ong impegnate nel soccorso in mare (tra cui Emergency, Sea Watch, Sos Mediterranée, Open Arms, Medici senza frontiere, Mediterranea saving humans e ResQ) hanno oggi lanciato un appello congiunto in cui chiedono al Governo di ritirare il decreto legge. “Il nuovo decreto legge ridurrà le capacità di soccorso in mare e renderà ancora più pericoloso il Mediterraneo centrale, una delle rotte migratorie più letali al mondo. Il decreto è apparentemente rivolto alle ong di soccorso civile, ma il vero prezzo sarà pagato dalle persone che fuggono attraverso il Mediterraneo centrale e si trovano in situazioni di pericolo”.  Dal 2014, le navi di soccorso civili stanno riempiendo il vuoto che gli Stati europei hanno deliberatamente lasciato con l’interruzione delle proprie operazioni Sar: “le ong hanno svolto un ruolo essenziale nel colmare questa lacuna e nell’evitare la perdita di altre vite in mare, rispettando sistematicamente le leggi in vigore - sottolineano. Ciononostante, gli Stati membri dell’UE – Italia in testa – hanno tentato per anni di ostacolare le attività di ricerca e soccorso civili attraverso la diffamazione, iniziative amministrative e la criminalizzazione di ong e attivisti”.

Le ong ricordano che esiste già un vasto quadro giuridico completo per le attività SAR, ovvero la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos) e la Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo (Convenzione Sar), “ciò nonostante il governo italiano ha introdotto un’altra serie di norme per le imbarcazioni civili Sar, che ostacolano le operazioni di salvataggio e mettono ulteriormente a rischio le persone in pericolo in mare - spiegano - Tra le altre regole, il Governo italiano richiede alle navi di soccorso civili di dirigersi immediatamente in Italia dopo ogni salvataggio. Questo provocherebbe ulteriori ritardi nei soccorsi, considerato che le navi di solito effettuano più salvataggi nel corso di diversi giorni”.

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)
Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)