Scienza. Un “marchingegno” per articolare la parola
Un nuovo dispositivo in ausilio a chi non è in grado di articolare la parola
Purtroppo, diverse e numerose sono le cause che possono privare un soggetto – pur in grado di conservare la capacità cerebrale di elaborare pensiero e linguaggio – dell’abilità di parlare correttamente, a volte fin dalla sua nascita (anomalie anatomico-funzionali congenite), a volte negli anni successivi (malattie metaboliche, infezioni, tumori e lesioni, ecc…).
Ovviamente, riuscire a trovare un rimedio per tale limitazione sarebbe di enorme ausilio a chi, pur “pensando” nella sua mente le parole, non è in condizioni di poterle esprimere, comunicando agli altri il proprio pensiero. E data l’importanza la posta in gioco, agli studiosi è lecito azzardare anche ipotesi di soluzione molto ardite, al limite del “fantascientifico”. Come ad esempio, la possibilità di progettare e realizzare un decodificatore capace di tradurre l’attività cerebrale in linguaggio parlato!
Evidentemente non ci siamo ancora, ma… si avanza verso la meta a passi spediti! Basta guardare il “marchingegno” messo a punto – e descritto in un recente articolo su “Nature” – da un gruppo di ricercatori, guidati da Edward Chang, dell’Università della California a San Francisco (USA).
Per comprendere la difficoltà di questo tentativo, bisogna ricordare che articolare le parole è una delle operazioni umane più complesse, possibile soltanto mediante una precisa coordinazione dell’attivazione di muscoli nelle strutture anatomiche (mandibola, labbra, lingua e laringe) che servono ad articolare i suoni.
Dunque, per giungere ad ottenere un’interfaccia realmente in grado di tradurre i segnali nervosi in linguaggio vocale sintetizzato da un computer, Chang e i colleghi hanno adottato un approccio in due fasi, entrambe basate sull’uso di reti neurali artificiali (ovvero, modelli di calcolo automatico), particolarmente adatte a gestire e trasformare dati caratterizzati da una struttura temporale di elevata complessità.
In un primo step, il team di ricercatori ha cercato di tradurre i segnali neurali in una precisa sequenza di attività muscolari finalizzate alla fonazione. Ciò ha richiesto il coinvolgimento di cinque volontari a cui, nell’ambito di un trattamento terapeutico per l’epilessia, erano stati impiantati alcuni elettrodi a livello cerebrale. Quindi, mediante una particolare tecnica (denominata “elettrocorticografia ad alta densità”), è stata registrata l’attivazione delle diverse regioni della corteccia cerebrale dei volontari mentre pronunciavano a voce alta alcune centinaia di frasi.
La seconda fase dell’esperimento è invece consistita nella trasformazione dei movimenti del tratto vocale, decodificati nella prima fase, in una voce sintetizzata.
In verità, in studi precedenti, si era già tentato di realizzare un simile processo, semplificandolo però eccessivamente (ovvero, provando a correlare direttamente gli schemi di attivazione corticale ai suoni pronunciati) e con risultati deludenti.
Chang e colleghi, invece, hanno avuto l’idea di seguire una via tecnicamente più complessa, ma con migliori risultati pratici, come ad esempio l’ottenimento di una distorsione acustica minore rispetto ad altre realizzazioni dello stesso tipo. La riprova è venuta da una serie di test di verifica effettuati su un gruppo di volontari; essi sono riusciti a riconoscere correttamente un centinaio di frasi “sintetizzate” dal dispositivo sulla base dell’addestramento precedente, come pure frasi sintetizzate in tempo reale, durante la decodificazione dell’attività neurale di un soggetto a cui era richiesto di mimare l’articolazione di una frase senza pronunciarla.
Certamente permangono ancora diversi problemi tecnologici da superare prima che il dispositivo del gruppo di ricerca guidato da Chang possa diventare un’interfaccia neurale utilizzabile in soggetti con un deficit del linguaggio dovuto a una patologia neurofunzionale.
Anzitutto per quanto concerne la pur soddisfacente comprensibilità del linguaggio sintetizzato dal dispositivo, ancora però molto lontana da quella del linguaggio naturale. È poi da superare un’altra limitazione, il fatto cioè che il dispositivo ha bisogno di un lungo periodo di addestramento, con frasi pronunciate da una o più persone, risultando quindi attualmente non adatto ad essere applicato direttamente su soggetti che hanno perso la capacità di parlare. Toccherà dunque a ricerche future il compito di provare a superare questi inconvenienti, per giungere ad un dispositivo effettivamente utile e applicabile sul piano terapeutico.