Sadhguru e la spiritualità dell’ovvio
Un prete, contrariamente a un pittoresco guru da salotto, provoca già con la sua sola esistenza a pensare a una “realtà altra”, in cui le libere scelte di ognuno sono determinanti per l’eternità; il guru invece ti ricorda quella figura paterna, amica, cui confidare i casini che hai combinato e con cui magari prendere una birra facendoci una risata. Il prete rievoca il padre che hai in casa, con tutta la portata conflittuale eppure vitale del rapporto che hai con lui dalla tua nascita
Domenica scorsa, mentre nelle chiese milanesi un numero variabile di cattolici ambrosiani intonava “Kyrie eleison” a ripetizione, ben altra liturgia si teneva in un palazzetto inzeppato di quattromila persone che, a un costo che poteva raggiungere i 900 euro a testa, si sono accalcate per ascoltare l’insegnamento dell’ormai celebre Sadhguru (letteralmente “guru ignorante”), santone induista che, cavalcando l’onda dei social, ha raggiunto una fama planetaria.
Io stesso l’avevo conosciuto incontrando sui social reel che riportano spezzoni di suoi incontri. Il sembiante di Sadhguru è quello classico: una bella barba bianca con baffi arricciati, turbante, e abiti variopinti in base alle occasioni. A parte la barba bianca, l’età è indefinibile, e denota una certa agilità fisica, di cui dà saggio in alcuni video in cui si cimenta in danze tradizionali.
Con un’espressione sorridente e un tono vivace dispensa riflessioni molto semplici ed efficaci, di carattere esistenziale ed esperienziale, che rimangono facilmente impresse perché fanno riferimento a quanto accade a tutti ogni giorno, dalla fame alla paura passando per l’alitosi.
Non mancano, per carità, scivoloni, come quando ammonisce a non mangiare melanzane o a non vestire di nero (pure, la sua analisi della natura fisica dei colori è semplice e accattivante); in quanto dice si può trovare di solito ben poco da contestare, come non lo si troverebbe in chi ci parlasse degli effetti salutari dell’aria marina o dell’importanza di andare a letto presto. Lungi da lui discorsi veementi e fanatici come quelli che fanno tanti suoi correligionari assetati di sangue islamico o cristiano; no no, per carità: Sadhguru deve poter andare bene a tutti, e fa un vanto di non avere mai studiato i testi sacri dell’Induismo – da qui il suo nome di “guru ignorante”, che riempie stadi e auditorium di persone pronte ad ascoltarlo.
Un giorno, confrontandomi oziosamente su questo personaggio con alcuni giovani che formo nei percorsi spirituali che ho avviato da qualche anno, siamo tutti giunti alla conclusione che un prete che dicesse cose simili non riscuoterebbe altrettanto successo, e questo per due motivi. Il primo, è che un prete non farebbe pagare, e le cose gratis vengono sempre prese sottogamba; il secondo, è che un prete, per quanto carismatico e convincente si dovrebbe scontrare contro una barriera pregiudiziale di pregiudizio e critica, se non avversione già solo per la veste che indossa. Penso con empatia e pena a quei preti, spesso giovani, che provando a ottenere visibilità sui social più recenti sono stati poi messi alla berlina dalla celebrità di turno, o hanno visto i loro contenuti, pure estremamente validi, ridicolizzati fino alla blasfemia in parodie irriverenti.
Questa non è l’epoca dei preti in pubblico: basti pensare a come anche nelle pubblicità dell’Otto per mille ormai s’inquadrano quasi sempre solo “laici impegnati”. I preti devono lavorare nelle retrovie e formare la gente. Il mondo non vede di buon occhio i preti e forse a ragione, direi. Anzitutto perché un prete, contrariamente a un pittoresco guru da salotto, provoca già con la sua sola esistenza a pensare a una “realtà altra”, in cui le libere scelte di ognuno sono determinanti per l’eternità; il guru invece ti ricorda quella figura paterna, amica, cui confidare i casini che hai combinato e con cui magari prendere una birra facendoci una risata. Il prete, se fa il prete, rievoca il padre che hai in casa, con tutta la portata conflittuale eppure vitale del rapporto che hai con lui dalla tua nascita: non il padre smagliante ed etereo, ma quello vero, magari un po’ imbrutito dagli anni e dalle fatiche, che sai che ti ascolta ma al quale non sai se vuoi davvero parlare.
Sadhguru, prima collezionista e venditore di motociclette e ora di saggezza quotidiana, attrae tanta gente perché, pur essendo completamente integrato nella concezione religiosa induista, assai di rado, e solo quasi di sfuggita, pone in questi video temi religiosi, preferendo argomenti come la contestazione del proprio io ideale, l’analisi lucida dei propri bisogni, l’accettazione del vuoto senza compromessi con i riempitivi, ecc. Proprio questa è la sua forza: il messaggio di Sadhguru è estremamente vendibile, perché avvicina le persone all’idea di una dimensione interiore, senza mai portarcele effettivamente, così da non costringerle a scegliere. È il profeta ideale nell’epoca in cui spesso si preferiscono gli animali ai bambini, perché non fa appello alla risposta personale e responsabile della coscienza, ma lascia ai suoi uditori l’idea di avere perlustrato le regioni dello spirito senza che abbiano a rinunciare al proprio assetto fondamentale. Risponde alla sete di trascendenza con una bevanda dolce e frizzante, gradevole e non troppo nutriente (o indigesta).
Al di là di una sapienziale diffidenza verso un simile modello, che in ultima analisi lascia l’uomo in balia di se stesso senza poterlo salvare dalla peccato e dalla morte, come Chiesa non possiamo non ammettere che il nostro approccio all’annuncio spesso è sbagliato in radice, partendo dalla presunzione di una comprensione da parte degli altri che molto semplicemente non esiste più. Dimenticando dove sta effettivamente l’uomo di oggi, frullato da consumi e pandemie, non di rado gli sbattiamo il kerygma in faccia in modo spocchioso, e chiamiamo parresia l’arroganza di chi non considera seriamente il suo interlocutore.
Sembriamo esserci dimenticati delle considerazioni di san Paolo: “Io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come a esseri spirituali, ma carnali, come a neonati in Cristo. Vi ho dato da bere latte, non cibo solido, perché non ne eravate ancora capaci. E neanche ora lo siete, perché siete ancora carnali.” (1 Cor 3, 1-3).
Per portare le persone a incontrare non un guru qualsiasi e i suoi feticci, ma il Cristo vivente, dobbiamo avere l’umiltà di ripartire anche noi ogni volta dalla somministrazione del “latte”, ovvero accettare che l’educazione al Vangelo richiede un grande lavoro sulle premesse umane, che parta dalle domande della gente, e non dalle risposte in cui noi ci sentiamo sicuri. Dobbiamo accettare la “kenosi” di una sapienza feriale, che riguardi l’uomo della strada e le sue inquietudini, certi che sotto l’azione dello Spirito, e con tanta pazienza, potremo far fiorire, con l’aiuto di Dio, tutto questo in una solida adesione alla vera fede. L’uomo d’oggi va portato alla luce passando per una graduale serie di penombre, perché è troppo, troppo spaventato dalla luce per esporvisi subito volentieri. Quelle penombre che per un Sadhguru sono il contenuto e il capolinea del discorso, per noi possono essere un punto di partenza e un mezzo.
Simili considerazioni mi hanno spinto anni orsono a strutturare un percorso, il cui fine è la formazione dei giovani al discernimento spirituale, come un quinquennio di cui ben due anni, i primi due, trattano prevalentemente della dimensione umana, autobiografica, esperienziale dei ragazzi, e solo a partire dal terzo anno, man mano e gradualmente, li si avvicina alla dimensione più prettamente spirituale ed ecclesiale. In questo modo lo Spirito Santo ci ha guidato e aiutato anche a strutturare proposte di vita comunitaria, percorsi di discernimento al sacerdozio e a donare a tanti ragazzi e ragazze vite più belle, dai colori vivaci. Partire “dal basso”, dall’uomo, significa incontrare le persone dove si trovano effettivamente (anche quelle che si dicono credenti), e solo se le incontriamo possiamo invitarle a camminare con noi fino a Cristo.
Alessandro Di Medio