Quel danno radioattivo. Gli effetti del disastro di Chernobyl, a 35 anni dall'incidente
Finora nessuno studio aveva indagato in modo sistematico se l'origine di alcuni tumori fosse da ricondurre proprio all'esposizione alle radiazioni, né quale fosse il tasso di incidenza di mutazioni genetiche trasmissibili alle generazioni successive.
Sono le ore 1:23:45 della notte del 26 aprile 1986: esplode il reattore 4 della centrale nucleare di Chernobyl, causando la morte immediata di 65 persone e la fuoriuscita di una nuvola di materiale radioattivo che, ricadendo su vaste aree (che oggi appartengono a Ucraina, Bielorussia e Federazione Russa) intorno alla centrale, le contamina pesantemente. Si tratta, ad oggi, del più grave incidente della storia del nucleare civile (classificato al 7° livello).
Nei giorni successivi all’incidente, le radiazioni rilasciate furono assorbite direttamente per chilometri e chilometri attorno alla centrale; in più, pascoli e verdure a foglia furono progressivamente ricoperti dal fallout dell’incendio depositatosi su di essi, con la conseguenza di un assorbimento di iodio radioattivo prolungato nel tempo da parte della popolazione della regione.
Col passare degli anni, sono emersi con evidenza numerosi e pesanti danni alla salute delle persone contagiate; in particolare, i dati epidemiologici raccolti hanno registrato un incremento dei casi di tumore (stimati in alcune migliaia), in particolare alla tiroide. Tuttavia, finora nessuno studio aveva indagato in modo sistematico se l’origine di quei tumori fosse da ricondurre proprio all’esposizione alle radiazioni, né quale fosse il tasso di incidenza di mutazioni genetiche trasmissibili alle generazioni successive.
Di recente, hanno provato a colmare questa lacuna due diverse ricerche (pubblicate su “Science”). Nella prima, gli autori spiegano di non aver rilevato mutazioni di rilievo nel genoma dei figli delle persone esposte; la seconda, invece, documenta come l’origine molecolare del danno che ha portato all’insorgenza delle neoplasie sia in effetti collegato alle radiazioni.
Il primo studio, condotto da Meredith Yeager e alcuni suoi colleghi, del National Cancer Institute a Rockville (Maryland, Usa), ha messo a fuoco le possibili conseguenze delle radiazioni di Chernobyl nella generazione successiva a quella esposta. A tal fine, i ricercatori hanno analizzato i genomi di 130 soggetti nati tra il 1987 e il 2002 da coppie di genitori in cui almeno uno dei due era stato esposto al fallout radioattivo. In particolare, gli autori hanno analizzato le possibili mutazioni genetiche della linea germinale, vale a dire verificatesi negli spermatozoi e ovociti dei genitori e poi trasmesse ai figli. I dati raccolti hanno però mostrato come l’incidenza di queste mutazioni sia paragonabile a quella riportata nella popolazione generale; le radiazioni di Chernobyl, dunque, sembrano aver avuto un impatto minimo sui discendenti della generazione esposta, almeno per quanto concerne il patrimonio genetico.
La seconda ricerca, realizzata da Lindsay Morton, del National Cancer Institute a Bethesda (Maryland, Usa), e alcuni colleghi di una collaborazione internazionale, ha invece provato ad indagare sul rischio di insorgenza di cancro nella popolazione esposta alla contaminazione radioattiva di Chernobyl, focalizzando l’attenzione in particolare sui tumori della tiroide. Questa ghiandola, infatti, per produrre ormoni, utilizza il 30% circa dello iodio presente nel sangue, ovvero della sostanza (iodio-131) che è uno dei principali contaminanti ambientali dovuti a incidenti nucleari. Normalmente, quindi, questo isotopo radioattivo si accumula proprio nella tiroide dove può indurre mutazioni genetiche nei tessuti circostanti, che a loro volta possono essere sorgente di tumori. Nel loro studio, Morton e colleghi hanno effettuato un’approfondita caratterizzazione del genoma (precisamente del “trascrittoma”, ovvero il profilo di espressione del genoma) e dell’epigenoma (l’insieme dei meccanismi regolatori dell’espressione del genoma) di un campione di 440 cittadini ucraini con tumore papillare della tiroide, la più comune forma di neoplasia maligna che colpisce questa ghiandola. Di questi soggetti, che avevano in media 28 anni all’età della diagnosi, 359 sono stati esposti allo iodio-131 all’epoca dell’incidente, quando erano bambini, mentre i restanti 81 sono nati dopo il 1986. Ebbene, i dati emersi hanno mostrato con chiarezza che a generare il tumore tiroideo è stato il danno al Dna indotto dalla radiazione; essa ha infatti lasciato una sorta di “impronta”, rintracciabile in una specifica alterazione chiamata “rottura del doppio filamento”. In aggiunta, gli autori hanno potuto accertare che il danno genomico era più grave nei soggetti esposti in età più giovane ed era direttamente proporzionale alla dose di radiazioni assorbita.