Politica. Non sottovalutare l’astensionismo
Quando la partecipazione scende sotto una soglia minima che si potrebbe ritenere fisiologica in un Paese in cui il voto non è obbligatorio, è la stessa democrazia a essere insidiata
Di astensionismo si parla quasi esclusivamente in occasione delle consultazioni elettorali quando, tornata dopo tornata, ci si accorge che la partecipazione al voto continua a scendere. Ma il dibattito finisce per concentrarsi sulle conseguenze del non voto sui risultati dei partiti. Capire chi è stato favorito o penalizzato è un esercizio di analisi legittimo e persino utile. La portata del fenomeno in sé resta però in secondo piano e si tratta di una forma di miopia politica molto grave. Perché se è vero che la vita democratica non si esaurisce nel momento elettorale, come se tutto finisse con l’elezione dei rappresentanti o di un capo dotato di pieni poteri, è anche vero che senza la possibilità di un voto libero e consapevole non c’è neanche la democrazia come tale.
Quello del voto, ha detto recentemente il presidente della Repubblica in un inedito incontro con un gruppo di influencer, “tra i tanti, più di ogni altro, è il momento in cui il cittadino diventa protagonista” ed esercita la sua “sovranità”. Una “sovranità irrinunziabile”, ha aggiunto Mattarella citando uno dei padri costituenti, “nel senso che il popolo, a cui è attribuita, deve esercitarla per mantenere, consolidare e sviluppare la democrazia”. Una dinamica tutt’altro che scontata in una fase storica in cui autoritarismi di varia natura e intensità mettono in discussione princìpi che sembravano irreversibili e mostrano una capacità di fascinazione a dir poco inquietante. Ecco perché è così importante la partecipazione. Quando essa scende sotto una soglia minima che si potrebbe ritenere fisiologica in un Paese in cui il voto non è obbligatorio, è la stessa democrazia a essere insidiata. In Italia fino alle elezioni politiche del 1979 l’affluenza alle urne è rimasta stabilmente oltre il 90%. Poi è iniziato un lento ma inesorabile declino. Nel 2022 l’affluenza non ha raggiunto il 64%. Negli altri tipi di elezione la partecipazione è sempre stata inferiore rispetto alle politiche, ma anche in questo caso oggi si è arrivati a sfiorare – o forse a superare – il livello di guardia: nelle regionali di Sardegna e Abruzzo, per stare ai casi più recenti, è andato ai seggi poco più della metà degli aventi diritto e in molte aree (come la provincia di Chieti, la più popolosa tra le abruzzesi), i non votanti hanno superato i votanti. E sì che si eleggeva direttamente il vertice istituzionale, si potevano indicare le preferenze per i candidati e in entrambe le situazioni gli esiti della competizione erano incerti. Tre fattori che in tutta evidenza costituiscono degli incentivi alla partecipazione.
Il punto è che il problema è più profondo e non esistono accorgimenti tecnici in grado di aggirarlo e tanto meno di risolverlo. Il che non esime le istituzioni dal dovere di agevolare il più possibile l’espressione del voto con tutti i mezzi a disposizione, riducendo gli ostacoli di tipo logistico che provocano il cosiddetto “astensionismo involontario”. Né deve indurre a sottovalutare il peso che concretamente i sistemi elettorali esercitano sui comportamenti dei cittadini: alle politiche, per esempio, la regola delle “liste bloccate” è sempre più insostenibile. Ma se alla base di tutto c’è un problema di offerta politica inadeguata e di erosione del consenso intorno al valore della democrazia rappresentativa, allora sono guai seri. Anche perché nella stagione del maggioritario, per un paradosso beffardo, ci ritroviamo con governi che sono espressione di minoranze nel Paese, come risulta evidente se si confrontano i risultati delle urne non con il numero dei votanti ma con l’insieme dei cittadini iscritti alle liste elettorali.