Oratorio di San Michele, canto del cigno carrarese
L'oratorio di San Michele di via Tiso di Camposampiero è stato restituito alla città di Padova dopo un complesso restauro che ha riposizionato l'ingresso, risanato la copertura e l'umidità delle pareti.
Il 1397 sembrava un anno di gioia per Padova, allietato dal doppio fastoso matrimonio tra Gigliola da Carrara, figlia di Francesco Novello, e Nicolò III d’Este, signore fanciullo di Ferrara, e di Francesco III da Carrara, primogenito del Novello, con Alda figlia di Francesco Gonzaga, signore di Mantova. In quello stesso 1397 Jacopo da Verona, su commissione di Pietro de’ Bovi, iniziò ad affrescare la cappella di Santa Maria adiacente alla chiesa di San Michele, in contrada Vanzo. Nessuno allora avrebbe immaginato che quello sarebbe stato l’ultimo ciclo di affreschi dell’era carrarese e che, appena qualche anno dopo, Francesco Novello sarebbe stato sconfitto dai veneziani e ucciso in carcere assieme a due figli.
Chi oggi entra nel restaurato oratorio di San Michele, in cui è effigiato proprio il signore di Padova Francesco Novello insieme al padre, Francesco il Vecchio, che era appena morto in prigionia e sepolto con tutti gli onori nella chiesa di Sant’Agostino, dovrebbe essere consapevole di trovarsi davanti all’ultimo ciclo d’affreschi della Padova carrarese, il “testamento” dell’Urbs picta che aspira a diventare patrimonio dell’umanità Unesco. E del testamento ha il pregio di riassumere, volutamente, con un citazionismo che qualche critico ha superficialmente tacciato di mancanza di originalità, i tratti salienti di quell’esperienza artistica unitaria, iniziata con il “principe dell’arte italiana”, il Giotto padovano degli Scrovegni, del Santo e del palazzo della Ragione, per maturare poi con Guariento, Giusto de' Menabuoi, Altichiero da Zevio (di cui il nostro era collaboratore), Jacopo Avanzi nel battistero del duomo, nell’oratorio di San Giorgio, nella cappella di San Giacomo...
Da tutto il “secolo d’oro” dell’affresco in cui era immerso, l’artista trae ispirazione per rielaborare, in maniera originale, le ricerche condotte dai suoi predecessori sulla prospettiva naturale, sulla volumetria delle figure, con un’occhiata già puntata al tardogotico. Proprio da quest’ultima è tratta forse la citazione più evidente, ma anche più originalmente reinterpretata degli affreschi di Jacopo, che narrando i tratti salienti della vita di Maria descrive sulla parete sud l’Annunciazione, su quella est, con il sistema della narrazione continua, la Natività e l’Adorazione dei magi, a nord l’Ascensione e su quella ovest la Pentecoste e la Morte della Vergine con Cristo che porta in cielo l’animula della Madre.
Nella scena dei Magi, in coda al corteo, il pittore ha dipinto con grande abilità naturalistica un cavallo imbizzarrito a stento trattenuto dagli scudieri, che rimanda ai cavalli impennati e caduti descritti con grande perizia da Jacopo Avanzi nella Cappella di San Giacomo. D’altra parte, se il pittore nato intorno al 1355 nella città scaligera era “scarsetto” in prospettiva (però il loggiato che separa l’Angelo dalla Vergine nell’Annunciazione e quello della Pentecoste non paiono poi così male) era bravissimo nei ritratti e ancor più nelle figure d’animali, che egli ha collocato un po’ dappertutto nelle sue opere. Non solo per fare sfoggio delle sue competenze zoologiche, ma anche per dare alle sue scene un tono realistico e quotidiano, che calasse il messaggio di salvezza del Vangelo nella vita di tutti i giorno. In tal modo il racconto arricchito da tanti particolari diventa vivo e partecipe, denso d’umori e di emozioni.
Ecco allora che nell’Annunciazione, bipartita sopra l’arco d’ingresso nella chiesa come aveva insegnato Giotto, una Vergine basita per l’apparizione dell’arcangelo Gabriele è colta nella sua camera da letto con il cagnolino dalle orecchie ritte accucciato sulla sedia e il gatto acciambellato indolentemente sul cuscino. E nell’androne intermedio, colonnato, una serva di cui si è perduto il volto sta raccogliendo le erbette in un prato pullulante di galline e altri pennuti. Ecco che nella grande scena Natività-Adorazione dei Magi troviamo accanto alle pecore, all’asino e al bue del presepio, cammelli, cervi, altri buoi, probabilmente allusivi dello stemma del committente, e perfino una scimmia. Vien da pensare, per analogia tutt’altro che rigorosa, al gioioso stupore con cui Francesco Novello chiese, poco prima della sua fine miserevole, a Venezia di “prestargli” per breve tempo alcuni dei doni portati dagli ambasciatori del favoloso Prete Gianni, re dell’Etiopia: quattro leopardi, la pelle di un “homo salvego” (uno scimmione) e quella di «uno aseno de diversi colori», una zebra.
Lo stupore che suscitano gli affreschi dell’oratorio di San Michele, si colora di rammarico al pensiero di quanto s’intuisce sia andato perduto. Anzitutto nella stessa qualità pittorica, impoverita dagli acciacchi del tempo soprattutto nei particolari, e non erano pochi, dipinti a secco. E poi nelle parti perdute architettoniche e figurative, sicuramente realizzate nella “vera” chiesa di San Michele. La cappella della Vergine era infatti adiacente a un tempio di cui rimangono solo parte dei muri perimetrali. La chiesa “dei Santi Arcangeli”, come in origine si chiamava, era antichissima, risaliva al settimo secolo, quando Padova era sotto la dominazione dei bizantini e poi dei longobardi. Non a caso durante i lavori di restauro è stato trovato un sarcofago tardo-romano che è ora visibile nella sacrestia-biglietteria insieme ai vari reperti emersi durante i lavori di scavo.
Gli arcangeli venerati in Occidente, ricordiamo, secondo la tradizione sono quattro: Michele il guerriero, Raffaele il medico, Gabriele il messaggero e Uriele, il guardiano del mondo e del tartaro. Oggi l’unica effige rimasta nella cappella è quella di Michele, ma non in veste di guerriero bensì di “psicopompo”, trasportatore, protettore e “pesatore” delle anime, probabilmente perché la cappella avrebbe dovuto avere funzioni funerarie. Il luogo di culto viene chiamato “cappella di San Michele” per la prima volta in un diploma imperiale del 1079. Allora la chiesa e i suoi possedimenti erano stati assegnati dal vescovo al monastero di Santa Giustina. Nel 1390 fu danneggiata nel corso dell’assalto che Francesco Novello fece al “suo” castello, dove si erano asserragliati i soldati invasori dei Visconti che avevano appena perduto la città.
È dopo il suo rifacimento, nell’ultimo decennio del Trecento, che si colloca la commissione di Pietro, figlio di Bartolomeo de Bovi, cugino di Piero di Bonaventura, ufficiale della zecca dei Carraresi, che fa affrescare la cappella, addossata alla navata maggiore. Divenuta parrocchia, la chiesa passò sotto la giurisdizione del monastero di Carceri e poi dei Canonici di Santo Spirito di Venezia. Quando nel 1656 papa Alessandro VII soppresse la congregazione per finanziare la guerra contro i turchi, i beni passarono a vari proprietari, insieme al diritto di giuspatronato. Nel 1792 la chiesa fu imbiancata da capo a fondo, si salvò solo la cappella, e nel 1808 cessò di essere parrocchiale. Lasciata andare in rovina, fu chiusa il 31 luglio 1812 e demolita nel maggio 1815. Per miracolo rimase in piedi la cappella affrescata, dotata di una nuova facciata neogotica ornata dalla frase che san Michele rivolse a Satana prima di precipitarlo nelle tenebre, che è anche il significato del suo nome: «Quis ut Deus?». Chi è come Dio?