Mutilazioni genitali femminili. Morrone (Iismas): “Educazione e integrazione per fermarle, mostrare che esiste un futuro alternativo”
Oltre 250 milioni di donne hanno subìto mutilazioni genitali femminili. L’Iismas promuove un incontro sulla salute riproduttiva per contrastare questa pratica. Aldo Morrone sottolinea l’importanza di educazione, integrazione e alternative economiche per fermare questa violenza e proteggere le bambine nel mondo
Sono più di 250 milioni le donne che in tutto il mondo hanno subito una mutilazione genitale femminile (Mgf); oltre 4 milioni le bambine ogni anno a rischio infibulazione. Questi dati dell’Onu confermano una pratica brutale e traumatica ancora in vigore in oltre 30 Paesi tra Africa e Medio Oriente – in Somalia la percentuale di donne mutilate tocca il 98%, in Guinea il 97% – ma il fenomeno interessa anche donne immigrate che vivono in Europa occidentale, Nord America, Australia e Nuova Zelanda. Oltre la metà delle ragazze che ha subìto una forma di Mgf aveva meno di cinque anni mentre sarebbero almeno 44 milioni le bambine e adolescenti ad averle subite entro i 14 anni.
Numeri impressionanti ma “che sono solo la punta di un iceberg”, spiega al Sir Aldo Morrone, già direttore scientifico dell’Istituto dermatologico San Gallicano di Roma Irccs, oggi direttore scientifico dell’Iismas (Istituto internazionale scienze mediche antropologiche e sociali), da una quarantina d’anni in prima linea contro le Mgf. Dati sottostimati: “Nelle aree rurali remote, in particolare dell’Africa, non esistono dati epidemiologici validati dalla comunità scientifica perché non c’è nessuno in grado di raccoglierli” ma, cosa più grave,
“in alcune aree del mondo, come in Indonesia, la pratica dell’infibulazione viene addirittura pubblicizzata tramite i social cambiandole il nome in ‘ritual cutting’”.
Il 6 febbraio, Giornata internazionale contro le mutilazioni genitali femminili istituita nel 2012 dall’Onu, l’Iismas promuove un incontro dedicato alla tutela della salute riproduttiva delle donne tra Nord e Sud del mondo presso il ministero della Salute, con la partecipazione di medici africani – e non solo – esperti internazionali e studiosi, per accendere i riflettori sulle azioni necessarie per raggiungere gli obiettivi dell’Agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile, tra i quali l’abolizione delle Mgf. “Purtroppo – afferma Morrone – scontiamo il clamoroso ritardo con il quale l’Oms ha iniziato ad affrontare la questione del cosiddetto ‘ritual cutting’, ritenendolo un tema di natura esclusivamente culturale. Sono state le donne africane a fare pressione affinché l’Oms prendesse posizione contro questa pratica”.
Perché continua a diffondersi questo fenomeno aberrante?
Alla radice c’è una forte violenza maschilista. In molte aree del mondo gli uomini vogliono contrarre un matrimonio solo con donne infibulate; ritengono un privilegio sposare una ragazza vergine e l’infibulazione è una sorta di garanzia.
Un meccanismo perverso che “costringe” una madre a fare infibulare la propria figlia convinta che solo il portare “in dote” la propria verginità possa assicurarle un buon matrimonio e un futuro dignitoso.
Come contrastarlo?
Anzitutto con un lavoro culturale di sensibilizzazione sulle donne – senza però colpevolizzarle – che aderiscono a questa pratica nella convinzione di fare il bene delle loro figlie; poi con un intervento di natura economica e sociale per consentire alle bambine di frequentare la scuola: accesso loro negato in diverse aree rurali del mondo dove vanno a scuola solo i maschietti e le bambine si occupano della casa o delle greggi da portare al pascolo.
Mandare le bambine e le adolescenti a scuola ridurrebbe il rischio di matrimoni precoci e forzati, e le porterebbe ad un titolo di studio e quindi ad una prospettiva di vita dignitosa.
Infine, terzo elemento, aiutare le donne che materialmente eseguono l’infibulazione – senza la quale perderebbero la loro fonte di reddito – ad abbandonare questa pratica offrendo loro l’opportunità di una formazione che le abiliti a svolgere attività di tutela e di promozione della salute di donne e bambine, come abbiamo già fatto da molti anni in diverse regioni dell’Etiopia in collaborazione con il San Gallicano, l’Ospedale San Camillo e l’Iismas. Ma c’è una cosa importante.
Quale?
Occorre andare in queste aree del mondo; c’è una differenza notevole tra il discuterne tra noi ed essere presenti lì dove
le bimbe che non vengono infibulate vivono una condizione di estrema marginalità
all’interno di un gruppo di bambine “chiuse”, perché vengono considerate alla stregua di bambine “di strada”. Non riusciamo a contrastare un meccanismo così complesso perché non lo studiamo e non lo conosciamo abbastanza. Non si tratta di un fenomeno religioso – questa pratica è seguita da donne appartenenti a tutte le fedi del mondo -, ma culturale ed economico.
Per sradicare la cultura maschilista e violenta alla base del fenomeno occorrerebbe coinvolgere anche gli uomini…
E’ la cosa più difficile: ogni volta che abbiamo organizzato incontri in Africa, ma anche in Italia, in particolare a Roma, con le donne provenienti da Paesi a forte pressione infibulatoria, è stato praticamente impossibile coinvolgere i maschi. Continua a permanere – e non solo tra le classi maschili socialmente svantaggiate, ma anche tra le più colte – la volontà di contrarre matrimonio solo con una donna che non sia mai stata toccata da nessun altro perché “chiusa” fin da bambina.
È possibile intervenire sui governi dei Paesi in cui si verificano le Mgf?
Diversi governi hanno prodotto normative contrarie all’infibulazione che viene perseguita a norma di legge; tuttavia abbiamo visto che la sanzione, da sola, non funziona.
Dovremmo puntare sulla capacità di dissuasione, mostrando che esiste un futuro alternativo per queste bambine, non legato all’infibulazione.
Gli Stati uniti, dove a causa del fenomeno migratorio le Mgf sono triplicate negli ultimi anni, e l’Unione europea che cosa dovrebbero fare per contrastarle?
E’ fondamentale accogliere e integrare le bambine e le donne nei servizi sanitari, sociali e educativi dei Paesi di arrivo. Questo, purtroppo, non sempre avviene. Nel nostro, addirittura lasciamo fuori dai servizi fasce di italiani fragili; meno che mai vengono accolte queste persone. Noi abbiamo più volte avanzato la proposta di riconoscere il diritto di cittadinanza ai bambini e bambine nati in Italia da genitori stranieri: già questo sarebbe un efficace strumento di contrasto alle Mgf e a tutte le altre pratiche di violenza sulle bambine, tra cui i matrimoni forzati.
Noi disponiamo della legge 7/2006 “Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazioni genitali femminile” che prevede per chiunque pratichi l’infibulazione la reclusione da 4 a 12 anni, pena aumentata di 1/3 se la mutilazione viene compiuta su una minorenne o per fini di lucro…
Una norma che è stata utilizzata solo tre volte in tre processi, ma senza sostanziale efficacia. Il provvedimento doveva essere accompagnato da un investimento strutturale, finanziario e professionale, che non c’è stato. Non ci sono neppure più fondi specificamente dedicati.
Che ruolo ha avuto il Covid nel continente africano dove voi lavorate?
Sono stati bloccati i programmi mondiali di contrasto e le risorse sono state tutte dirottate nella lotta alla pandemia. Dove noi siamo presenti, in Etiopia e nel Corno d’Africa, la chiusura delle poche scuole ha lasciato le bambine letteralmente in balia delle “mammane” che hanno convinto le mamme a sottoporle all’infibulazione. Ma la situazione è ancora peggiore in Sudan e Tigray dove la guerra fratricida ha causato più di 700mila morti e decine di migliaia di donne sono state stuprate. Ho visitato 62 campi di sfollati nei quali le bambine sono vittima delle Mgf e le donne vengono violentate; non hanno alcun tipo di aiuto e
si verificano molti casi di suicidio: un dramma umanitario del tutto sconosciuto all’Occidente.
Perché avete scelto come tema dell’evento odierno la salute riproduttiva?
Perché vogliamo aiutare queste donne durante la gravidanza e il parto; vogliamo evitare l’aumento della mortalità infantile. Nei villaggi abbiamo formato dei contadini che, con un modesto contributo, vanno a vedere ogni mattina le donne incinte; se le gravidanze hanno problemi le portano al primo Help Center o al Primary Hospital. Se invece la gravidanza va bene, chiediamo di portarle prima dell’ottavo mese in ospedale dove le teniamo fino al mese successivo al parto per evitare emorragie e infezioni post partum, e per favorire l’allattamento.
Ogni donna e ogni bambina, in qualunque luogo sia nata, ha diritto alla salute fisica e psicologica e all’integrità della propria persona, al di là di ogni tradizione e convenzione.