Migrazioni legate alle malattie dei bambini: “Serve un reddito di emergenza sanitaria”
La ricerca “Viaggi con la speranza” realizzata da Acli mostra come le famiglie costrette a spostarsi per raggiungere strutture sanitarie di eccellenza, per curare patologie gravi dei loro figli, sono a rischio di vulnerabilità, impoverimento economico e disagio educativo. Budano: “Serve una misura economica pubblica a sostegno delle famiglie”
Le persone non emigrano solo per motivi economici, ma a volte devono spostarsi perché hanno seri problemi di salute e cercano un luogo dove potersi curare. È il fenomeno della cosiddetta “migrazione sanitaria”, l’idea per cui i cittadini scelgono liberamente il luogo in cui curarsi, optando per le strutture sanitarie d’eccellenza, che garantiscono maggiori opportunità di guarire da una patologia grave. In altre regioni italiane, ma anche all’estero. Ma qual è il costo umano e sociale di queste migrazioni sanitarie? A parte la possibilità di valutare l’efficienza dei sistemi sanitari nelle singole regioni (in base alla capacità di attrarre pazienti non residenti), quali sono le conseguenze sui diretti interessati? La ricerca “Viaggi con la speranza. Storie di famiglie colpite dalla malattia di un figlio”, realizzata da Iref, l’Istituto di Ricerche Educative e Formative delle Acli a partire dagli studi dell’esperto di welfare Gianluca Budano, cerca di fare luce su questo fenomeno. Partendo dai dati ufficiali, si ricostruisce il vissuto di alcuni genitori giunti a Roma, presso l’ospedale pediatrico Bambino Gesù, per offrire le cure migliori ai propri figli.
“In questo viaggio, disagevole e per molti versi lacerante, si consuma una vera e propria cesura biografica tra un ‘prima’ e un ‘dopo’ – spiega Gianluca Budano, che è consigliere di Presidenza Nazionale Acli con delega alle Politiche della salute e della famiglia –. La scoperta del ‘male’ che minaccia la vita di un bambino (o di un adolescente) diventa ben presto uno spartiacque nel vissuto familiare, con conseguenze psicologiche, economiche e sociali tutt’altro che secondarie per tutti i soggetti coinvolti da un evento a tutti gli effetti traumatico: madre e padre, fratelli o sorelle, nonni, altri parenti, e ovviamente il minore il cui stato di benessere viene seriamente pregiudicato da una malattia”.
Nel nostro paese, questi spostamenti sono tutt’altro che trascurabili: nel 2017, 937mila persone hanno compiuto uno di questi viaggi, per un valore di oltre 4,3 miliardi di euro di prestazioni mediche ricevute fuori dalla regione di residenza. L’indagine mette in luce come le conseguenze della mobilità legata alla salute si riverberino in altre sfere rispetto a quella sanitaria: sono tanti i bisogni che rimangono troppo spesso inevasi, non essendo oggetto di attenzione da parte di politiche e servizi. Da questo punto di vista, il rischio che corrono le famiglie è quello di maggiore vulnerabilità, impoverimento economico e disagio educativo. Sono numerosi i problemi di ordine pratico ed economico da affrontare, come ad esempio la necessità di abbandonare il lavoro per almeno uno dei genitori, l’esigenza di trovare un alloggio nelle vicinanze dell’ospedale, la necessità di garantire la continuità scolastica al bambino, e così via.
“In Italia, se escludiamo alcune leggi regionali o la legge 104/92, che però non considera i lavoratori autonomi o i disoccupati, non esiste nessuna possibilità di ristoro per le famiglie che affrontano questo tipo di problemi, pur essendo questi ultimi ineludibili e non frutto di scelte volontarie – continua Budano –. Bisogna superare queste evidenti ingiustizie prevedendo delle misure adatte e utilizzabili immediatamente al sorgere della malattia grave. Dovremmo elaborare una misura economica pubblica a sostegno delle famiglie, in poche parole un reddito di emergenza sanitaria”.
E poi c’è la questione della perdita delle relazioni e della rete sociale della propria terra d’origine, con famiglie che si trovano sole in una grande città, senza conoscere nessuno e senza aver dimestichezza con il contesto. “Secondo molti esperti, le relazioni non sono un ‘in più’, ma parte stessa della cura – afferma Budano –. Non possiamo tagliare queste relazioni, poiché esse sono un elemento fondamentale della cura stessa. Il tema di fondo a questo punto è: cosa significa curare? Se vogliamo veramente mettere al centro la persona dobbiamo ripensare il nostro modo di agire. Occorre pervenire ad un modello che sappia tenere insieme la dimensione biologica e quella relazionale. Soltanto così potremo dire di aver preso in carico una persona nella sua totalità”.
Alice Facchini