Leopoli: vita quotidiana nella città rifugio. I missionari: “ogni profugo è una reliquia”
Il monastero degli Orionini nella città ucraina è diventato un punto di approdo per tante persone che fuggono dalle bombe. Preghiera, accoglienza, aiuti materiali: occorre prodigarsi per ridare un po’ di speranza nella tragedia della guerra. “Di notte non dormo, non per paura delle bombe, ma perché penso a tutto quello che c’è da fare”, confessa don Moreno Catellan. “Ogni mezzora arrivano cinque o sei richieste per accogliere persone da ogni parte del Paese. C’è chi resta e chi invece si organizza per ripartire”
La tensione aumenta man mano che il tempo passa nella “città rifugio” di Leopoli. Accampamenti di profughi nei grandi spazi, dallo stadio alle palestre alle caserme, e assembramenti di famiglie alla stazione ferroviaria, rendono la vita frenetica ed emergenziale. Questo è il principale snodo tra le città bombardate e la frontiera. Passare da Leopoli è d’obbligo per arrivare altrove. C’è però anche tanta speranza, solidarietà e riscoperta di Dio: la vita comunitaria nel monastero orionino adibito a rifugio è occasione di preghiera e azione. “Solo la carità salverà il mondo”, dicono i missionari di don Orione confluiti a Leopoli.
Il cessate il fuoco di questo weekend, annunciato per consentire a 200mila persone di evacuare le città sotto attacco, è stato violato.
Di fatto la tregua è fallita anche a Mariupol. “C’è gente che da una settimana è dentro i rifugi, dove non c’è niente se non materassi a terra, tutta la metropolitana di Kiev è diventata un grande bunker, ma quanto potranno resistere senza una tregua?”, si chiede don Moreno Cattelan, al telefono da Leopoli. Nei giorni scorsi il Sir lo aveva già sentito, all’indomani dell’attacco russo all’Ucraina. Ora fa il punto della situazione. “Noi sacerdoti indossiamo la nostra veste, celebriamo la messa, qualcuno dei profughi ha chiesto la bibbia o il catechismo. La testimonianza della carità apre il cuore. Un uomo ha voluto che gli parlassi di Dio – racconta don Moreno –. Le persone non di fronte alle bombe ma di fronte al gesto di carità si fanno domande e vogliono sapere cosa spinge a donare”.
Il fatto stesso che i missionari abbiano deciso di restare, di non essere rimpatriati, di continuare a fare la spola verso la frontiera per accompagnare pullman o auto con dentro chi scappa, è una forte testimonianza.
“Non ho dubitato neanche un attimo di voler rimanere, per me ogni persona che fugge è una reliquia”, dice don Cattelan. L’aumento in queste ore del flusso di profughi (donne e bambini che arrivano nella zona franca) è segno che l’emergenza è aumentata, lo stadio cittadino è diventato un campo di tende e così molti palazzi. “Lo vediamo dalle telefonate di aiuto che arrivano qui – dice il sacerdote –: abbiamo ogni mezzora cinque o sei richieste per accogliere persone da ogni parte dell’Ucraina. C’è chi resta e chi invece si organizza per ripartire. Ma come facciamo a mandare una mamma con bimbi di sette otto mesi nello stadio o in una palestra? Qui abbiamo bagni e stanze e una lavanderia”.
Il monastero è un punto di riferimento e anche uno snodo logistico per la partenza dei pullman diretti alla frontiera con la Polonia e l’Ungheria.
“C’è tanto movimento, bisogna organizzare tutto: io di notte non dormo, non per paura delle bombe, ma perché penso a tutto quello che c’è da fare”, confessa don Moreno, che però appare sempre sereno. La fatica è alleviata dalla gioia di vedere i profughi arrivare a destinazione, come nel caso di un gruppo di persone non vedenti che venerdì sera sono state accompagnate alla frontiera europea e da lì in Italia. “Eravamo tutti preoccupati naturalmente: allora ci siamo messi a pregare, li abbiamo affidati agli angeli custodi e tutto è andato bene. Noi sacerdoti ci siamo divisi i compiti: siamo in tre luoghi diversi, a pranzo però cerchiamo di stare tutti assieme”, racconta.
“Questa è una città simbolo per la Chiesa greco-cattolica, ci sono stati martiri e persecuzioni contro la fede nel periodo sovietico”.
“Una signora che all’epoca aveva 14 anni ci ha raccontato di aver passato 12 anni di Siberia perché avevano trovato la sua famiglia che partecipava alla messa nella foresta. Eppure ha più paura oggi di quanta ne avesse allora”. La precarietà della guerra in casa “ti cambia completamente la vita – spiega don Cattelan – e noi cerchiamo di viverla al meglio. Quando scatta l’allarme proviamo a scherzare, qualcuno non ha le App e cerchiamo di sdrammatizzare”. Una bambina di nove anni che, grazie alla spola, ha raggiunto con la famiglia Tortona (Alessandria), ha poi mandato un messaggio: “finalmente oggi vado a dormire in un letto e senza preoccupazioni, sono tranquilla perché non devo nascondermi in un rifugio”. Catellan commenta: “quando leggiamo queste cose, sappiamo che se siamo qui e siamo rimasti c’è una ragione e tutto cambia”.
Ilaria De Bonis (*)
(*) redazione “Popoli e Missione”