La parola “Prossimità”: centro della pastorale diocesana, ma anche reale necessità. La distanza sociale non ci impedirà di farci prossimi

Un tempo era la prossimità non voluta a metterci a disagio. Con la pandemia abbiamo scoperto il bisogno di vicinanza. Esisteva una scienza, la prossemica, che studiava le distanze fisiche tra le persone, quelle distanze che si assumevano spontaneamente e che dicevano molto delle nostre relazioni.

La parola “Prossimità”: centro della pastorale diocesana, ma anche reale necessità. La distanza sociale non ci impedirà di farci prossimi

Intorno a ciascuno di noi c’erano dei cerchi invisibili: il più stretto (da 0 a 50 cm) era l’area intima, nella quale potevano entrare solo pochissime persone, gli intimi, appunto. Poi c’era l’area personale (da 50 cm a 1 m), in cui potevano entrare senza metterci a disagio quelli che conoscevamo. Poi c’era quella sociale (tra 1 e 3-4 m) e infine quella pubblica, il cerchio più largo di tutti (più di 4 m).

Ovviamente in autobus e in ascensore stavamo tutti appiccicati come le sardine, ma allora cercavamo almeno di non incrociare lo sguardo dei compagni di viaggio sconosciuti.

Poi è arrivato il Covid-19. Avremmo rinunciato volentieri, molto volentieri, all’intimità forzata in autobus e in ascensore, ma non c’è stato verso e per di più abbiamo dovuto imparare a salutarci con l’inchino, come i giapponesi, ma non è nel nostro DNA. Ci è stato raccomandato in tutti modi di mantenere una distanza sociale, per l’appunto maggiore di un metro, ma abbiamo scoperto un disagio nuovo: quello di dover stare a rispettosa distanza dalle persone che amiamo. Spesso verrebbe spontaneo avvicinarsi, toccare un braccio, a volte abbracciarsi, ma non si può: dobbiamo stare staccati gli uni dagli altri.

La prossemica è saltata, ma non è un gran danno: molti non sapevano nemmeno che esistesse e vivevano bene lo stesso. Ma la prossimità?

Forse la pandemia ci sta rendendo più consapevoli del bisogno che abbiamo di vicinanza e del disagio che proviene dalla sua mancanza. In passato, il disagio veniva più spesso da una prossimità non voluta: un buon vicino di casa era quello che non faceva rumore, non ficcava il naso, non avanzava richieste; una persona educata era quella che stava a rispettosa distanza, salutava gentilmente e poi toglieva il disturbo; l’idea di un buon viaggio comprendeva anche un mezzo di trasporto semivuoto. Magari è ancora così, ma scopriamo anche di essere molto soli e, come dice la Scrittura, «Guai a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi» (Qo 4,10).

Intorno a noi stanno cadendo in molti e molti di più cadranno per mancanza di lavoro e di denaro, ma soprattutto per mancanza di una rete sociale che ammorbidisca la caduta e permetta di rialzarsi.

La nostra Diocesi per questo anno pastorale ha proposto come “orizzonte pastorale” l’attuazione di iniziative di buon vicinato, sia a livello di singoli che di comunità, come suggerito dal breve testo La carità al tempo della fragilità, consegnatoci qualche mese fa. Ci è chiesto di farci prossimo, non fisicamente, ma con l’attenzione, la cura, la solidarietà. «E chi è il mio prossimo?», chiese uno scriba a Gesù. Come risposta, il Signore raccontò la parabola del buon samaritano, chiedendo agli ascoltatori di non domandarsi chi era il loro prossimo, ma di farsi prossimo, cioè avvicinarsi a chi ne ha bisogno.

Con un po’ di buona volontà, pur mantenendo la famigerata distanza sociale, possiamo essere prossimo anche in tempo di pandemia.

don Giorgio Ronzoni
parroco di Santa Sofia in Padova

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