Il ragazzo e l’airone: una bellissima fiaba come testamento
Fiabe rassicuranti, quelle di Miyazaki, fiabe che fanno bene allo spirito, perché gli offrono intrattenimenti salutari, distensivi, che riunificano interiormente anziché acutizzare le tensioni. Se il discernimento concerne anche quanto decidiamo di mettere in noi, tenendo fuori quanto riconosciamo che ci fa male, questo dovrebbe includere naturalmente il tipo di spettacoli che abitualmente vediamo, sapendo che la nostra immaginazione si avvarrà, pro o contro di noi, di ciò di cui ci nutriamo
Il 1° gennaio di quest’anno è uscito il nuovo film di Hayao Miyazaki, “Il ragazzo e l’airone”. Sono passati dieci anni dall’ultimo film di questo grande autore immaginifico, che con la pellicola autobiografica “Si alza il vento“ aveva asserito di avere concluso la sua opera per l’età avanzata, sebbene, per la gioia di tutti gli estimatori della sua opera, in seguito Miyazaki abbia cambiato idea, volendo lasciare un film al nipote.
Un lascito, ovvero un testamento: in questa pellicola gli affezionati all’autore giapponese hanno senz’altro potuto ritrovare quegli elementi ricorrenti dei suoi film, che definiscono i traumi e le pietre miliari della sua storia, come la perdita della madre, la presenza incombente del tema bellico sullo sfondo, l’ecologia, ecc.
In questo film Miyazaki sembra voler consegnare al nipote, nella forma di una vivida allegoria, l’intera sua esperienza esistenziale, al contempo suggerendo in questa consegna un invito a portare avanti la sua opera. In fondo, anche il titolo originale del film (Kimi-tachi wa dō ikiru ka, cioè: E voi come vivrete?), tratto da un romanzo che ne ha ispirato il soggetto, sembra essere un appello, un invito a disporre creativamente di quanto è affidato al giovane protagonista dall’enigmatico personaggio del Prozio, una specie di demiurgo ormai gravato dall’età, che dopo avere creato un mondo perfetto di 13 elementi (i film di Miyazaki sono 12… chissà che possiamo sperare in un’altra pellicola!) lo vede vacillare e invadere dai Parrocchetti, gli imitatori per definizione… che dietro ci sia una pressante richiesta di Miyazaki a non permettere che la sua arte sia distrutta da banali imitazioni? È una lettura possibile, tra altre: l’opera di Miyazaki è volutamente allusiva, non forza l’interpretazione ma accompagna lo spettatore a cercare il senso nel proprio mondo interiore.
Questa gentilezza, questo prendere garbatamente sottobraccio lo spettatore per immergerlo in un’esperienza vivida e refrigerante, da cui poi ognuno, come il giovane protagonista del film, riporterà a casa quello che vuole, è un tratto tipico dell’opera di Miyazaki, e la sua ultima pellicola non fa eccezione.
È stupefacente il modo in cui immagini disegnate e colorate riescano a trasmettere, molto più di quanto potrebbe fare una ripresa dal vivo, lo spessore delle cose, la loro consistenza: l’erba alta e umida mossa dal vento, la carne del pesce gigante quando vi affonda il coltello, la soffice leggerezza dei Warawara… ti sembra di toccarle, di esserci! Questo anche grazie alla maestria dei colori, per cui ogni scena è un quadro suggestivo e luminoso, e dei suoni, immediatamente evocativi di un mondo naturale forse perso per sempre per gli abitanti odierni del rumore costante.
L’esperienza sensoriale, che nei film di Miyazaki facilita già di suo una profonda distensione dell’animo, fa sempre da cornice a un altro aspetto molto importante: nella sua opera non c’è mai vera violenza, un vero male oppositivo, la necessità di distruggere per vincere.
Le figure antagonistiche si presentano piuttosto come sfide necessarie all’evoluzione del protagonista che, anzi, non di rado finirà per ritrovarle come alleati: altro tema tipico del nostro autore, il “romanzo di formazione” dei suoi giovani protagonisti che imparano a integrare le opposizioni per diventare autonomi, adulti.
Se di solito, nella flebile cultura mediatica attuale, il male viene negato come tale semplicemente per sdoganarlo, in Miyazaki ci viene offerto un altro tipo di spettacolo, che ci fa tornare bambini e ci solleva, per cui gli spauracchi che tanto temiamo si rivelano essere meno brutti di come sembravano, e possiamo non avere paura, e credere che alla fine vincerà la riconciliazione tra la parti, e ci sarà solo bellezza.
Fiabe rassicuranti, quelle di Miyazaki, fiabe che fanno bene allo spirito, perché gli offrono intrattenimenti salutari, distensivi, che riunificano interiormente anziché acutizzare le tensioni. Se il discernimento concerne anche quanto decidiamo di mettere in noi, tenendo fuori quanto riconosciamo che ci fa male, questo dovrebbe includere naturalmente il tipo di spettacoli che abitualmente vediamo, sapendo che la nostra immaginazione si avvarrà, pro o contro di noi, di ciò di cui ci nutriamo – e nei film di Miyazaki riteniamo di poter riconoscere un tipo di nutrimento immaginativo che sarebbe da preferire a molto di quello che è in circolazione sui canali di streaming e che ci induce ad abbuffate sensoriali violente e sterili.
Claudia de Lillo descrive la sua frustrazione per non essere riuscita a far apprezzare Miyazaki dai suoi familiari in un articolo apparso su la Repubblica proprio in occasione dell’uscita de “Il ragazzo e l’airone”, dal titolo molto eloquente “Ma i figli crescono bene anche senza i film di Miyazaki”. Non si capisce se il titolo sia ironico, o se sia un tentativo di autogiustificarsi rispetto alla propria delusione; fatto sta che senz’altro è vero: non è necessario vedere i cartoni di Miyazaki per crescere bene, ma è necessaria un’arte come la sua, rivolta ai più giovani, per dare loro un’alternativa alta, luminosa, forse un po’ difficile ma senz’altro appagante, alla trivialità becera e alla completa mancanza di interiorità che caratterizzano i prodotti da loro abitualmente fruiti.
Alessandro di Medio