Il paradiso perduto dell’essenziale. Come gli scrittori hanno narrato, e vissuto, la povertà
Anche uomini di diverso orientamento religioso, come Hermann Hesse, vedono in Francesco una delle palpabili tracce di Dio nella storia
“Per favore, non dimentichiamoci dei poveri”. Le parole finali dell’omelia di papa Francesco nella settima giornata dei poveri non sono soltanto un invito a sostenere la gente che non ha neanche il necessario per sopravvivere. Significa cercare di capire il loro stato, i loro pensieri, il loro dolore. La sofferenza di chi magari poco tempo prima aveva un lavoro e una casa e poteva permettersi una vacanza ogni tanto.
Significa mettersi nei loro panni per capire cosa ci accadrebbe se fossimo noi al posto loro.
Qualcuno ha portato fino in fondo questo cammino, fino a farsi povero tra i poveri abbandonando il benessere e la tranquillità economica. Ne abbiamo avuti esempi già dall’antichità pagana, si pensi alla scelta di Diogene di vivere per strada mangiando quel che capitava e con il poco che gli veniva donato.
Abituati come siamo all’accumulazione, se non la nostra quella dei signori dei mercati, facciamo fatica a capire quella possibilità che qualcuno ha chiamato decrescita: la non dipendenza dall’accumulazione selvaggia e il ritorno ad una società dell’equilibrio tra fonti, natura ed economia a misura d’uomo.
Altrimenti non ci spiegheremmo un Francesco figlio di un ricco mercante che nell’Assisi di fine XII secolo decide di abbandonare lussi, amori cortesi e sazietà per tornare a quella natura che già allora l’uomo stava iniziando a minacciare. E non è un caso che un ricco che torna poverello senza nulla scriva uno dei capolavori assoluti -non era un intellettuale- della letteratura di tutti i tempi. Il Cantico di Frate Sole, nato per essere cantato (nel medioevo poesia e musica erano ancora uniti), rimarrà perché riesce nel difficile compito di unire natura, anima, corpo e divinità in una unica dimensione. Certamente il Salmo 148, e il Cantico dei tre giovani presente nel libro di Daniele (3, 52-90) partecipano alla suggestione iniziale, e però le lodi del poco, per i ricchi scandalizzati dalla sua scelta, però il “signore”, ma anche “fratello” Sole, e la luna e le stelle che ci aiutano a camminare di notte, e il vento e l’acqua, il fuoco senza il quale il vagabondo morirebbe per strada, sono segni di una comunione assoluta, radicale con il tutto.
Ed è per questo che anche uomini di diverso orientamento religioso, come Hermann Hesse, vedono in Francesco una delle palpabili tracce di Dio nella storia. La storia di coloro che lasciano il tutto per l’apparente niente che nascondeva un’enorme ricchezza, come aveva provato, cinque secoli prima del Poverello, Benedetto da Norcia, anche lui in fuga dalla sazietà e da una civiltà ormai dissoluta.
Molti scelsero la vera libertà per diverse ragioni, che però avevano un punto fondamentale di coesione nella consapevolezza che il troppo, il lusso, l’inutile fossero la fonte di ogni male. Leon Bloy rimase povero tutta la vita anche perché non poteva, e non desiderava, adattarsi alle leggi del mercato e del bel vivere. Uno dei grandi del simbolismo e del futurismo russo, Velimir Chlebnikov, scelse il nomadismo, la fame e il freddo, morendo, anche a causa degli stenti, ospite di un amico: “Poco, mi serve. Una crosta di pane, un ditale di latte, e questo cielo e queste nuvole” è una poesia-testamento cui si può aggiungere ben poco.
Di avventure come queste, con la scelta di affrontare il viaggio e la preghiera dell’anima ce ne sono molte, da Tolstoj a Pierre Reverdy, grande poeta francese che scelse di vivere nell’abbazia benedettina di Solesmes, senza dimenticare quelle opere letterarie che hanno lasciato un segno tangibile nel loro narrare l’addio alla ricchezza: “Uno nessuno e centomila” di Pirandello, “Le cure domestiche” di Marilynne Robinson, “Il filo del rasoio” di Somerset Maugham, “Tardi ti ho amato” di Ethel Mannin, “Walden” di Thoreau e molti altri, troppi, per essere citati qui in un arido elenco.