Il commissario Maigret. Novant’anni e non li dimostra
Le sue indagini non erano basate, come per Sherlock Holmes, su deduzioni ferree e fredde, ma sulla partecipazione alle sofferenze e alle ombre della gente comune.
Avere quasi un secolo, e non dimostrarlo. Non è un complimento di maniera, anche perché non stiamo parlando di una signora attempata, ma di un commissario di polizia francese, che ha fatto capolino nella letteratura di genere esattamente novant’anni fa. Era il 1929, infatti, quando il giornalista belga George Simenon iniziò a dare vita, all’inizio appartata e discreta (l’autore si nascose sotto lo pseudonimo di Christian Brulls), al commissario Jules-Joseph Anthelme (in altre occasioni Amédée Francois) Maigret, per tutti semplicemente Maigret. L’Italia ha avuto il merito, tra i Sessanta e i Settanta del secolo scorso, di aver realizzato, con la regia di Mario Landi, una lunga e fortunata serie televisiva che vide Gino Cervi nei panni del silenzioso commissario. Divenne un caso di antonomasia, perché il nostro attore, che aveva alle spalle una lunga e gloriosa carriera, fu praticamente personificato con Maigret. Da allora Simenon iniziò ad entrare discretamente in alcune biblioteche e librerie, e si scoprì che non era solo l’autore di un personaggio che ha fatto storia nel genere poliziesco, una storia lunga 75 romanzi (quelli firmati con il suo vero nome da Simenon), una trentina di racconti e una serie sterminata di film e sceneggiati, perfino in Giappone, ma anche di altri romanzi.
Ma che cosa attirava in particolare di questo timido, abitudinario, guardingo commissario parigino, nato in provincia ma poi pian piano assurto a protagonista – involontario – delle cronache parigine? La capacità di entrare dentro le persone. Le sue indagini non erano basate, come per Sherlock Holmes, su deduzioni ferree e fredde, ma sulla partecipazione alle sofferenze e alle ombre della gente comune. Maigret rimane per sempre un provinciale, nel senso più nobile del termine: abitudinario, anche al fumo della sua pipa e a robuste bevute, come d’altronde il suo creatore, ama il colloquio discreto, le zone d’ombra, i vicoli, è in realtà un indagatore di anime, oltre che un funzionario dello stato. È più vicino ai radicali interrogativi sul perché del male su questa terra di un Bernanos che alle trasgressioni e ai divertimenti (sul ciglio del burrone della grande depressione e delle guerre) di altri scrittori del tempo. La scoperta di un colpevole è per lui una profonda indagine sulla psiche umana, sulle sue deviazioni e le sue irrazionali difese. Non ce l’ha con i “cattivi”, che consegna alla magistratura (con la quale ha un rapporto di rispettosa e sospettosa convivenza obbligata) perché essi portano con sé dolore e miseria, ma si interroga costantemente sul perché del dolore e del male nella vita dell’uomo.
Si avverte in lui e nel suo creatore la presenza del pensiero esistenzialista, che attraverso Kierkegaard arriva ad Heidegger e a Sartre, investendo tutta la cultura del tempo, e non solo quella francese. Mai come alle storie di Maigret si addice l’etichetta “noir”, perché dietro ogni fatto di cronaca si nasconde l’enigmatica presenza di un libero arbitrio che talvolta prende la mano e spinge a diventare, da possibile compagno d’avventura umana, carnefice. E come in ogni noir che si rispetti, anche il famoso commissario si pone, dopo la scoperta del colpevole, la domanda vecchia quanto il mondo, ma sempre senza risposta, sul perché della scelta del male.
Marco Testi