I rischi dell’individualismo. La letteratura ci mostra come l’affermazione assoluta di sè sia minata alla base dalla paura e dall’isolamento
È evidente che tutta la spasmodica ricerca individualistica non è mai assoluta, ma anzi cosparsa di crisi, ripensamenti, pentimenti.
La ricerca sfrenata di se stessi, chiusi in un io che non lasciava scampo, non è solo una dimensione dell’oggi ridotto ad immagine e a compiacimento estetico, nuovi centri gravitazionali di un universo vuoto di contenuti e di comunicazione fisica. Nulla si ripete: non esiste l’eterno ritorno di ogni cosa di un Nietzsche che andrebbe riletto nella sua disperata richiesta di un oltre-uomo, spesso confuso con un fumettistico super-uomo; esistono cicli non cronometrabili, come esistono ricorrenti crisi economiche che hanno cause, alcune delle quali diverse dal passato, altre purtroppo simili. Il che non vuol dire uguali. Grazie a Dio non solo individualismo rampante: basti pensare alle tante realtà che promuovono, non da oggi, l’aiuto all’altro, la mano tesa, la messa a disposizione del proprio tempo nei confronti di chi soffre, di chi giace solitario in ospedale, di chi cerca una nuova patria e di che mangiare. Ed è questo mondo a tenere alta la bandiera del vivere, non per se stessi, ma in funzione dell’altro: basti pensare alle parole del pontefice sulla necessità della scelta tra la strada facile del pensare solo a noi e “la porta stretta del Vangelo”, e quelle del cardinale Matteo Zuppi che ha parlato di una “intossicazione da individualismo” al Meeting di Rimini. Ma anche quando riflettiamo sulla reale sostanza della letteratura dell’individualismo, ci rendiamo conto che quella letteratura ha rivelato, invece che trionfo e raggiungimento di obiettivi reali, dolore, angoscia, senso di impotenza e di solitudine. Accade soprattutto in quel ciclo cosiddetto (guardiamoci dalle facili classificazioni!) degli inetti, fatto di opere di autori di prima grandezza come Musil, Kafka, Svevo, Borgese, in cui emergeva la solitudine nella ricerca di una realizzazione completa. Il protagonista della Coscienza di Zeno è un brav’uomo, che tenta l’affermazione di un sé in un mondo in cui regna sovrana la tentazione di Nietzsche e di Schopenhauer, dove sembra assente qualsiasi tentativo di aprirsi all’altro. Zeno, sconsolato, immagina una fine apocalittica per l’umanità, in seguito ad una esplosione: “la terra ritornata alla forma di una nebulosa errerà nei cieli”; il che ci dimostra la capacità profetica della letteratura: siamo nel 1923, più di vent’anni prima della nefasta atomica in Giappone. Soprattutto Gabriele D’Annunzio non sfugge al disperante richiamo oltre-umano di Nietzsche, alla schiavitù della volontà: i suoi “eroi” tentano l’affermazione assoluta e senza limiti, perché come aveva avvertito Schopenhauer, la realizzazione di uno scopo ha come conseguenza la noia, quindi quella ricerca di affermazione è senza fine, a meno che non si arrivi all’ascesi e alla rinuncia di sé. Possibilità tentata dal Pirandello di Uno nessuno e centomila, dove avviene la francescana spoliazione dell’eroe rovesciato, il ritorno alla natura e ai suoi cicli.
È evidente che tutta questa spasmodica ricerca individualistica non è mai assoluta, ma anzi cosparsa di crisi, ripensamenti, pentimenti. La stessa parabola di Hemingway ce lo dimostra, con il suo vitalismo messo a servizio dei sofferenti durante la grande guerra sul fronte italiano e della resistenza anti-franchista durante la guerra civile spagnola, che seguì come giornalista. Altri americani come lo Steinbeck di Furore hanno scelto di abbandonare l’isolamento individualistico per narrare la miseria del popolo travolto dalla crisi economica e dalla siccità. Ma anche alcuni italiani, come Verga, sono la prova provata di come i romanzi vadano letti e non studiati solo alla luce dei riassunti libreschi: Rosso Malpelo e I Malavoglia sono l’opposto di un freddo distaccato sguardo sulla miseria della Sicilia di fine Ottocento, ma anzi, un commosso tributo a quanti sono stati inghiottiti dal maremoto della miseria, della speculazione, dell’indifferenza dei grandi. Lo stesso Philip Roth, passato per un individualista puro e semplice, nel suo Pastorale americana narra la storia di un padre che tenta di ritrovare un rapporto con quella che era la sua amata bambina e che ora si perde nei meandri del terrorismo, del nichilismo e della religione come rinuncia radicale al mondo e agli affetti familiari.
Sì, l’individualismo in letteratura è evidente, anche se spesso si fonde con la ricerca dell’altro, la frustrazione, la paura del no, una filosofia che insegna l’affermazione dell’io e poi però presenta conti salati ai suoi stessi creatori.