Danzaterapia in pandemia, il disagio del corpo (recluso) per creare relazione
Fernando Battista, danzaterapeuta e couselor, racconta come i percorsi di arteterapia sono andati avanti durante l’emergenza Covid-19 grazie agli strumenti digitali. “Abbiamo ribaltato la dimensione del virtuale come limite e l’abbiamo messa in gioco, facendola diventare elemento del lavoro stesso
La danzaterapia ha nella relazione il suo punto centrale. Durante la pandemia, in un periodo in cui è proprio la possibilità del contatto e della presenza a mancare, come riformulare allora le modalità di lavoro? “Abbiamo dovuto ripensare al digitale come strumento funzionale alla relazione e al rapporto con le persone: riprogettare un ambiente virtuale accogliente, intimo, per raggiungere comunque gli obiettivi – racconta Fernando Battista, danzaterapeuta e couselor di Roma, fondatore del progetto interculturale Pedagogia del confine –. Nella danzaterapia, il corpo è lo strumento principe. Ma come fare quando i corpi non si possono incontrare? Quando la pandemia è iniziata, mancava una cultura della rete: non eravamo abituati a lavorare in remoto. Pian piano, ci siamo sperimentati e abbiamo messo a punto nuove strategie per creare una relazione con il gruppo, seppur a distanza”.
Durante il primo e il secondo lockdown, Fernando Battista ha organizzato incontri con gruppi di danzaterapia e formazioni online, creando così interventi nel campo virtuale, cercando di superare le difficoltà rispetto al mezzo. “La chiave di volta è stata mettere a fuoco il disagio del corpo recluso, e farlo diventare l’oggetto dell’incontro – continua –. Quando abbiamo ribaltato la dimensione del virtuale come limite e l’abbiamo messa in gioco, facendola diventare elemento del lavoro stesso, è cambiato tutto. Questo ci ha restituito un grande senso: quello che poteva essere un non detto, elemento di disturbo sotteso, lo abbiamo verbalizzato e agito, e questo ci ha permesso di viverlo”.
Si potrebbe pensare che, durante gli incontri di danzaterapia in remoto, i partecipanti stessero seduti a fissare uno schermo, ma non è così: non sono mancati gli esercizi con il corpo in movimento, come quello della mappa emozionale del corpo. “Le persone sono state invitate a costruire la propria sagoma del corpo su un grande foglio di carta, e metterci all’interno parole, linee, disegni, per sfogare il proprio senso di frustrazione, raccontare le aspettative tradite e buttare fuori le emozioni di impotenza e paura. È stata la strategia che ha consentito un percorso di esorcizzazione del disagio”.
E poi è stato fatto un lavoro per sentire i limiti del corpo nella propria abitazione, per reinterpretarla in chiave creativa: invece che subire la costrizione, provare ad allargare lo spazio utilizzando il corpo e la danza. “Abbiamo cercato di riappropriarci di uno spazio che era il simbolo della costrizione – spiega Battista –. Abbiamo usato oggetti della casa per danzare con loro ed esplorare lo spazio: salire in piedi sul divano, sdraiarsi sulle sedie, o passarci sotto. Questo ha aiutato a vedere tutto da un’altra prospettiva”.
Infine, attraverso alcuni esercizi si è andati verso una riappropriazione di alcuni angoli per sé, ascoltando il proprio respiro, il proprio peso del corpo, e sentendo una variazione interna rispetto alle sensazioni man mano che il corpo prendeva confidenza con quello spazio. “Un’esigenza forte durante il lockdown era anche quella di ritagliarsi uno spazio nostro”. A ottobre, i gruppi di danzaterapia sono tornati in presenza, ma il lavoro fatto in remoto è rimasto nella memoria dei corpi. “Il digitale ci ha permesso di dare una continuità al lavoro – conclude Battista –. Il linguaggio dell’arte ha superato così anche le barriere imposte dall’emergenza sanitaria”.
Alice Facchini