Dalla gelateria ad Auschwitz nel ricordo di Sylva Sabbadini, tra i tre sopravvissuti dei padovani ebrei deportati da Vò Vecchio
Al civico 93 di via Tiziano Aspetti, nel quartiere Arcella, Elio Sabbadini, il papà di Sylva, gestiva una gelateria intestata in realtà a un'altra donna come copertura: a causa delle leggi razziali aveva perso il lavoro come funzionario all'interno del ministero dell'Agricoltura. Quando iniziarono a temere per le proprie vite, i Sabbadini si trasferirono dal quartiere a nord di Padova a Vigodarzere, ospitati da una famiglia di contadini, ma il 24 dicembre 1943 furono presi e deportati. Solo Sylva, al tempo quindicenne, e sua madre Ester sopravvissero nel campo di concentramento di Auschwitz. Sylva ha raccontato la sua storia solo nel 2008, dopo oltre 60 anni di silenzio, ed è morta a 91 anni nel giugno 2019.
Era il 16 dicembre 1943, una giornata fredda, ma nitida e soleggiata, il tempo ideale per gli aerei degli Alleati dell'aviazione anglo-americana per scaricare bombe mortali. Erano le 13, ora di pranzo, e 72 aerei in sei minuti scaricarono sui binari della stazione ferroviaria e sulle case della prima Arcella duecento tonnellate di bombe . Poco più in là, su via Tiziano Aspetti, all'arrivo degli aerei un uomo esasperato usciva in strada per gridare la sua rabbia contro i fascisti. Fu notato dalla polizia e arrestato, come precisa il verbale del 24 dicembre successivo:
Durante l'incursione del 16 u.s. in via Tiziano Aspetti un signore gridava: "Buttate giù, addosso ai fascisti!" Pronte indagini di questo Ufficio Politico portava all'identificazione nella persona di Sabbadini Elio, ebreo che da due mesi aveva lasciato la sua abitazione in via Tiziano Aspetti 93 [ ... ] Avuto il nuovo indirizzo e cioè frazione Salgaro (Comune di Camposampiero) presso la famiglia di Bano Giuseppe, il sottoscritto procedeva al fermo di Sabbadini Elio, Hammer Ester, Sabbadini Silva, Hammer Lazzaro. [ ... ] I suddetti fermati sono stati dal sottoscritto consegnati al funzionario di servizio per i provvedimenti del caso. Per il Sabbadini Elio si riserva di fare regolare denuncia per propaganda antifascista
Il verbale porta la firma del commissario federale Dumas Sogli ed è stato recuperato e riportato dalla docente Mariarosa Davi all’interno del suo libro “Alunni di razza ebraica” pubblicato nel 2010 in cui vengono raccontate le vite degli studenti ebrei del liceo Tito Livio sotto le leggi razziali. Davi che, nella ricostruzione di fonti e testimonianze ha avuto anche la possibilità di intervistare Sylva Sabbadini, una delle tre a sopravvivere dei 47 ebrei padovani deportati da Vò Vecchio e morta nel giugno 2019, è scettica sull’esattezza di quel documento, medesima perplessità condivisa in passato dalla stessa figlia: «I formulari sono abbastanza standard – spiega la docente in pensione dal 2019 – e solitamente vengono firmati da due poliziotti. Qui viene attribuita una frase e successiva denuncia per propaganda, difficilmente Elio Sabbadini poteva essere così ingenuo da esporsi pubblicamente».
La gelateria in via Tiziano Aspetti 93
È probabile che quel 93, con le successive metamorfosi del quartiere, non corrisponda all’attuale posizione, ma è l’unica traccia di memoria che rimane e quello che sappiamo è che in corrispondenza di quel numero civico di via Tiziano Aspetti, Elio Sabbadini assieme alla sua famiglia gestiva una gelateria intestata a una donna, Linda Giacon. Una copertura per continuare a sopravvivere nascosti, perché Elio aveva perduto, a causa delle leggi razziali, il suo lavoro di funzionario della Confederazione Fascista Lavoratori Agricoli. Nel 2003, in un’intervista sul Mattino di Padova , la stessa Sylva raccontò dettagli preziosi della sua infanzia e del passato dei suoi genitori:
«Mio padre era dirigente del Ministero dell'Agricoltura e per questo viaggiavamo spesso per l'Italia. Passammo dalla Sicilia alla Toscana e infine a Dolo. Ricordo ancora la nostra casa: una villa bellissima dell'epoca, con delle torrette caratteristiche. Venne il 1938 e con esso le leggi razziali. Ci spostammo a Milano, dove vivevano i nostri parenti, ma nessuno di noi poteva lavorare. Pertanto mio padre decise di rivolgersi alla comunità ebraica di Padova: fu cosi che una sera, all'Ippodromo Padovanelle, conobbe il padrone di una gelateria ed ebbe l'idea di aprirne una. Riuscimmo a trovare casa e negozio all'Arcella, vicino al Dazio. Restammo lì fino a quando il questore ci disse che era ora di tagliare la corda. Per puro caso ci rifugiammo a Terraglione, a casa dei Bano».
Elio, in realtà, non era padovano ma era nato ad Ancona il 22 dicembre 1901 così come sua moglie Ester Hammer, nata a Trieste il 30 novembre 1908 . Nascosti a Vigodarzere da diversi mesi, risulta dunque poco credibile la sua presenza all’Arcella durante i bombardamenti. Mariarosa Davi, infatti, parla spesso di una delazione, una denuncia segreta, pretestuosa. Tradimento o ingenuità? A questa ipotesi si aggiungono ancora le parole di Sylva che al tempo aveva 15 anni:
«Nei pressi della gelateria abitava una mia coetanea e chiesi che mi venisse a trovare. Un giorno un fascista entrò in negozio con la scusa di voler comperare il nostro appartamento, che era al piano superiore, e la mia amica ingenuamente gli disse dove trovarci».
Catturati il 24 dicembre 1943 e deportati da Vò ad Auschwitz
E arrivò la vigilia di Natale, alla porta dell’abitazione della famiglia Bano bussarono i federali fascisti. Elio, sua moglie Ester, il cognato Lazzaro e sua figlia Sylva vennero presi e internati nel campo di concentramento di Vò Vecchio, assieme alla quinta componente della famiglia, Caterina Rudoi, la madre di Ester e Lazzaro, che il federale aveva inizialmente ritenuto di non fermare perché anziana e malata. Nel luglio successivo furono portati ad Auschwitz: Caterina Rudoi venne uccisa all'arrivo, Sylva Sabbadini e la mamma Ester furono come detto, assieme a Bruna Namias, le uniche a sopravvivere degli ebrei padovani deportati da Vò. Lazzaro, fratello di Ester, fu trasferito da Auschwitz a Dachau con il numero di matricola 119625, dove morì il 15 dicembre 1944. Elio Sabbadini condivise la sorte del cognato, insieme a lui fu trasferito a Dachau, dove venne registrato con il numero di matricola immediatamente precedente, 119624: sopravvisse di poco e morì, sempre a Dachau, il 17 maggio 1945, poco dopo la liberazione.
Un passato non raccontato per oltre 60 anni. E un pianoforte
Sylva sopravvisse ad Auschwitz perché, rispetto alle coetanee, sembrava una donna adulta e quindi utile per lavorare. Le altre vennero uccise nelle camere a gas. Assieme ad altre due ragazze fu sottoposta agli esperimenti del dottor Josef Mengele e il 27 gennaio 1945 vide con i suoi le truppe dell'Armata Rossa liberare il campo di concentramento di Auschwitz. Assieme a sua madre rimase ancora lì per tre mesi a servire nella mensa ufficiali e su VareseNews raccontò questo aneddoto:
«L’odore dei cadaveri che bruciavano era insopportabile, volevamo andarcene a tutti i costi. Mia madre conobbe un ufficiale rumeno che ci portò a Bucarest. Una volta lì contattammo il console italiano. Ci venne incontro un uomo elegante che ci portò in un appartamento molto bello dove c’erano altri italiani. Mia madre vide un pianoforte e lo fissò a lungo, senza parlare. Non mi meravigliai, dopo tutto lei era una concertista e come quasi tutti i componenti della sua famiglia suonava il pianoforte e il violino. Erano emigrati agli inizi del ‘900 da Odessa, quando era ancora Russia, a Trieste. A un certo punto si avvicinò a quel grande pianoforte a coda, si aggiustò il seggiolino, iniziò a premere sui tasti. Fu così che ricominciammo a vivere».
Sylva è morta a 91 anni, il 27 giugno 2019. Per oltre sessant’anni non ha raccontato la sua storia. Mariarosa Davi ha raccontato su Il Bo live la storia dei padovani catturati e deportati e ha pubblicato la foto che documenta la sua ultima presenza nella scuola pubblica: il registro del 1940 che verbalizza la sua ammissione, da privatista, alla nuova scuola media - che non potrà frequentare - sotto la dicitura “razza ebraica”.
Il registro con il nome di Sylva Sabbadini. Fonte: ilbolive.unipd.it