Con i suoi 106 anni, Marko Feingold è stato fino a qualche settimana fa il più anziano sopravvissuto alla Shoah in Austria
Quello che è accaduto in questi giorni a Liliana Segre spinge a raccontare la storia di Marko Feingold, il più anziano sopravvissuto a 4 campi di concentramento.
“Il mio compito è sempre stato quello di portare testimonianza ai giovani, di metterli in guardia dai pericoli e di stimolarli ad analizzare sempre con attenzione le azioni della politica”.
Con i suoi 106 anni, Marko Feingold è stato fino a qualche settimana fa il più anziano sopravvissuto alla Shoah in Austria. È morto a settembre a Salisburgo. Europeista convinto, fino all’ultimo è andato nelle scuole a parlare ai giovani. Fino all’ultimo è stato uomo che – ricorda il card. Christoph Schönborn sulla sua pagina Facebook – “non si è mai stancato di ricordare senza amarezza il peso della nostra storia”.
Quella di Feingold è stata una vita che ha dell’incredibile, “così piena di coincidenze da rendere la morte una cosa irrilevante”, come raccontava lui stesso.
Feingold nasce il 28 maggio 1913 a Banská Bystrica, all’epoca Ungheria oggi Slovacchia, e cresce a Vienna. Tra le due guerre fa il commesso viaggiatore in Italia, dove con estrema facilità apprende l’italiano. Nel 1939 si trova a Praga, quando viene arrestato e deportato con il fratello ad Auschwitz. L’orrore dell’Olocausto lo colpisce subito in pieno, come i calci nello stomaco che gli riservano i soldati nazisti all’arrivo nel campo. “La sera del nostro primo giorno – ricordava – ci hanno rasato la testa a zero. Mio fratello ed io ci siamo guardati e abbiamo iniziato a piangere. Ed è stato allora che ho pensato: devi sopravvivere a tutto questo e devi raccontarlo, perché la gente non ha idea di che cosa accade qui”. Feingold passa anche per i campi di concentramento di Neuengamme, Dachau e Buchenwald. “La fame ci faceva impazzire – raccontava -. Avevamo così poco da mangiare che sono arrivato a pesare una quarantina di chili. Sapevo che chi non era in grado di lavorare veniva mandato al campo di sterminio e sapevo anche che non serviva a nulla elemosinare del cibo: i soldati avrebbero tirato fuori la pistola e mi avrebbero ucciso lì, sul posto”. Caso più unico che raro, Feingold è riuscito a sopravvivere a quattro campi di concentramento. “Una sopravvivenza che ha un valore ancora più grande se si considera che ogni volta che venivo spostato c’era sempre l’incertezza di essere destinato al camino”.
Alla fine della guerra, quando l’Austria chiude le frontiere agli ebrei diretti in Palestina, Feingold con uno stratagemma riusce ad accompagnare in Italia 100mila ebrei. “Mi presentavo al Brennero con 200-300 ebrei, dicendo che erano italiani deportati e mi facevano passare”, amava ricordare. Quando poi, nel 1947, l’Austria chiude la rotta del Brennero, Feingold individua un sentiero d’alta montagna al passo dei Tauri. In quell’estate migliaia di ebrei raggiungono a piedi di notte l’Alto Adige.
“Quando fummo liberati da Buchenwald – raccontava – gli americani ci diedero del pane bianco a Reichenhall, vicino a Salisburgo. Insieme al pane, il primo pane fresco dopo la liberazione, ci diedero una coperta di color bordeaux. Era umida di rugiada. Decisi di portarla comunque con me. Qualche tempo dopo mi feci cucire una vestaglia. Ce l’ho ancora. Se guardi bene all’interno trovi le lettere US”.
Per più di cinque anni Feingold ha vissuto l’odio sulla sua pelle, giorno e notte. Ma quell’odio non ha prevalso su di lui. E alla fine è stato lui a trasformare quell’odio, come quella coperta bordeaux, divenuta una vestaglia.
“Non ha mai avuto rabbia o risentimento – così lo ricorda l’arcivescovo di Salisburgo Franz Lackner – al contrario è stata una persona conciliante, che ha sempre cercato il dialogo”.