“Avatar. La via dell’acqua” di James Cameron: un grande racconto epico, ecologista e spirituale
Con "Avatar. La via dell’acqua" il regista James Cameron supera se stesso con un’opera che narrativamente si dimostra più matura, stratificata e poetica, trovando il tratto di eccellenza nella dimensione visiva, così immersiva e coinvolgente. Un’esperienza spettatoriale magnifica!
James Cameron sta realizzando il suo “Star Wars”: con “Avatar. La via dell’acqua” (“Avatar: The Way of Water”) il regista canadese mette a segno il secondo capitolo della saga ambientata sul pianeta Pandora firmando un grande racconto epico, familiare, di matrice ecologista e spirituale. A distanza di tredici anni dal primo, sorprendente, titolo “Avatar” (2009), tre Premi Oscar ma soprattutto un incasso da record – oltre 2miliardi e 900 milioni di dollari, il più elevato della storia del cinema -, Cameron supera se stesso con un’opera che narrativamente si dimostra più matura, stratificata e poetica, trovando il tratto di eccellenza nella dimensione visiva, così immersiva e coinvolgente. Un’esperienza spettatoriale magnifica! “Avatar. La via dell’acqua” è nei cinema italiani dal 14 dicembre in 1.200 schermi, candidandosi seriamente non solo al titolo di campione delle feste ma soprattutto a “salvatore” dell’economia della sala, che ha attraversato un autunno bruciante, di profonda disaffezione. Punto Cnvf-Sir.
Dalle distese aeree alle profondità del mare
Sono passati poco più di dieci anni dalla grande battaglia sul pianeta Pandora tra gli umani, gli “Sky People”, e gli indigeni Na’vi. L’ex Marine Jake Sully (Sam Worthington) ha ormai cambiato vita, integrandosi nella popolazione indigena degli Omaticaya e legandosi alla principessa guerriera Neytiri (Zoe Saldaña). Insieme hanno formato una famiglia, composta da tre figli: il maggiore Neteyam (Jamie Flatters), il più responsabile e assennato, il secondo Lo’ak (Britain Dalton), dallo spirito intrepido e ribelle, e la piccola Tuk (Trinity Jo-Li Bliss). C’è anche una quarta figlia, Kiri (Sigourney Weaver), che i Sully hanno adottato; Kiri è nata biologicamente della scienziata Grace Augustine (la stessa Weaver), morta al termine del grande conflitto, e ha uno spiccato slancio spirituale. Dopo un decennio di grande serenità, i Sully avvertono nuovamente il pericolo giungere dagli “Sky People”, così per tutelare la comunità di Omaticaya decidono di lasciarla e spostarsi verso nuove frontiere, trovando rifugio presso la comunità indigena che abita le coste blu, il clan dei Metkayina, guidato dalla coppia Tonowari (Cliff Curtis) e Ronal (Kate Winslet).
Archetipi e suggestioni di una grande saga familiare
Uno degli elementi che ci spinge a considerare “Avatar. La via dell’acqua” migliore del primo film è anzitutto l’articolazione del racconto, che si presenta più completo, stratificato e profondo. Tanti sono i temi in campo nel copione firmato dallo stesso James Cameron insieme a Rick Jaffa e Amanda Silver. Parliamo in primo luogo di una storia dal respiro epico, dove ruggenti battaglie si intrecciano a vorticosi dissidi dell’animo dei protagonisti: il film percorre tanto una dimensione macro-narrativa, la valorosa discesa in battaglia riconducibile a modelli letterari (ci possiamo spingere sino ai racconti omerici) e cinematografici come “Braveheart” (1995) o “L’ultimo dei mohicani” (1992), quanto una dimensione micro, intima, segnata da uno scavare introspettivo o da uno scandagliare le relazioni familiari, in primis l’intesa-dissidio padre-figlio.
James Cameron disegna una storia potente, complessa, che si muove su più piani; di certo lo sguardo ravvicinato sulla famiglia Sully è centrale, soprattutto la dinamica affettiva-educativa che c’è tra Jake e i due figli (rimando evangelico, parabolico): il primo Neteyam, il figlio modello, sempre nel perimetro delle regole genitoriali, il secondo Lo’ak, che dà vita al profilo del “diverso”, del ribelle. Sarà proprio lui ad aprire orizzonti problematici ma anche a mettere in campo azioni di grande valore.
Nel film si colgono anche gli archetipi della tragedia greca, il complesso di Edipo. Un aspetto che torna non solo tra Jake e il secondogenito Lo’ak, ma anche nella contrapposizione tra il giovane Spider (Jack Champion), un ragazzo umano selvaggio – che recupera il topos del “Libro della giungla” di Rudyard Kipling, il personaggio Mowgli – figlioccio cresciuto con i Sully, costretto a elaborare l’ingombrante peso delle proprie origini, il legame biologico con il padre Miles Quaritch (Stephen Lang), che abita con convinzione la vertigine del Male. Qui c’è tutto “Star Wars”, l’incontro-scontro tra Luke e suo padre Anakin/Darth Vader. Quella frattura, dissidio, tra perdono e vendetta.
La diffusa spiritualità che ammanta “Avatar”
Ancora, tramite la Lo’ak e Kiri, Cameron esplora il tema del rispetto dell’ambiente e del creato, affidando alla storia un potente messaggio ecologista: è per mano dell’uomo che il mondo è sul crinale dello smarrimento, soprattutto quando si fa predatore di risorse per interesse e profitto. Il regista si serve di suggestioni vibranti, che sembrano oscillare dal “Moby Dick” (1851) di Herman Melville alla “Laudato si’” (2015) di Papa Francesco. Una storia ambientalista, che sconfina in un orizzonte di spiritualità: “Avatar. La via dell’acqua” è costellato infatti da momenti di ricerca interiore, dal rapporto con un “dio creatore”; la famiglia Sully, la comunità indigena tutta, dimostrano fede e rispetto per il dono della vita ricevuto. C’è un ricorrente rimando poi anche alla preghiera, alla supplica, alla gestualità del rosario così come una riflessione sulla morte, al significato della morte non solo come perdita, lacerazione dell’esistenza, ma anche come passaggio di senso verso un orizzonte “altro”.
Oltre la disabilità, “Avatar 2” si concentra sui valori di inclusione e uguaglianza
Nel primo “Avatar” uno dei temi portanti del racconto era la disabilità, la condizione dell’ex marine Jake Sully. Come scriveva Riccardo Benotti sul Sir nel 2010: “La disabilità non come oggetto d’indagine ma come condizione di vita, pari a quella di qualsiasi altro personaggio […] Cameron dirige una pellicola che integra la figura della persona disabile attraverso un processo di ‘normalizzazione'”. In “Avatar. La via dell’acqua” il regista sceglie di non ripetersi, facendo un passo avanti: campo di riflessione diventa il valore dell’uguaglianza e dell’inclusione, superando barriere mentali e pregiudizi razziali. Un film che ruota su accoglienza, tolleranza e perdono, eleggendo la famiglia a vertice dell’universo narrativo. Vivere per la famiglia, nella famiglia.
James Cameron sfida se stesso, compreso l’impresa del “Titanic”
In ultimo, è doveroso parlare della regia di James Cameron e della sua scommessa produttiva tesa a dare vita a un’esperienza visiva sorprendente, di puro incanto per lo sguardo. Il regista non ha paura di tornare a confrontarsi con il successo “Avatar” del 2009, che lo ha messo in cima alle vette hollywoodiane. Con “Avatar. La via dell’acqua” Cameron compone un affresco visivo di scintillante bellezza, dove la dimensione paesaggistica-naturale si fa protagonista; un aspetto che si coglie soprattutto se si sperimenta la visione in 3D. Ma non c’è solo il trionfo della tecnica, della performance capture, perché in “Avatar. La via dell’acqua” James Cameron rilegge il proprio passato, il successo di “Titanic” (1997), dedicando una lunga sequenza del film all’interno di una carlinga che affonda in mare, una lotta claustrofobica per la sopravvivenza che riporta a quella di Jake e Rose nel colossal dei record (11 Premi Oscar, il 3° incasso nella storia del box office). Senza dimenticare che qui in “Avatar 2” torna anche Kate Winslet. Insomma, “Avatar. La via dell’acqua” è un’opera che conquista per il suo andamento narrativo epico, incalzante, denso di emozioni e per la sua dimensione visiva sontuosa, di magnifica bellezza. Un film che non può lasciare indifferenti. Consigliabile, problematico-poetico, per dibattiti.