Agroalimentare sempre più globale. Uno sciopero oltreoceano ha rischiato di bloccare i commerci di mezzo mondo
Quello del blocco dei porti statunitensi non è che l’ultimo esempio che illustra bene la rete di collegamenti (positivi e negativi) nella quale la produzione di cibo è collocata
Un disastro commerciale di proporzioni miliardarie. L’ortofrutta e più in generale l’agroalimentare italiano, hanno rischiato grosso dopo l’avvio dello sciopero dei portuali statunitensi. Una prova di forza che nel giro di pochi giorni si è risolta a favore di chi ha scioperato, ma che dice molto, se ve ne fosse ancora bisogno, della assoluta globalizzazione nella quale i sistemi agroalimentari (anche quello italiano) sono ormai inseriti.
A scattare la fotografia della situazione è stato il Corriere Ortofrutticolo: proprio le vendite di ortofrutta sarebbero state quelle costrette a pagare il prezzo più alto. Da martedì primo ottobre, 45mila circa componenti all’International longshoremen’s association avevano incrociato le braccia nei porti della costa orientale e nella zona del Golfo del Messico. Una prova di forza, appunto, che nel giro di pochi giorni ha bloccato gli scali in grado di movimentare tra il 40 e il 50% dei volumi di tutti gli scali statunitensi. Una situazione che ha fatto scattare l’allarme al di qua e al di là dell’oceano Atlantico. Jp Morgan aveva già calcolato danni solo per gli Usa pari a 5 miliardi di dollari al giorno, mentre le più importanti aziende di trasporto avevano già annunciato rincari nelle tariffe e ritardi nelle consegne. Prospettive che avevano allarmato subito anche i produttori italiani. Se gli Stati Uniti sono il primo partner commerciale dell’Italia fuori dall’Europa, lo sono ancora di più per le esportazioni agroalimentari. A questo proposito, basta sapere che, stando a calcoli di Coldiretti su dati Istat, nel 2023 le esportazioni via mare di prodotti agroalimentari italiani negli Usa sono arrivate alla bella cifra di 6,4 miliardi di euro. “Ogni anno – sottolinea una nota dei coltivatori – oltre il 95% in valore delle esportazioni agroalimentare tricolori raggiunge gli States via mare (rispetto al 63% del totale generale), con vino, olio d’olivo e pasta a guidare la classifica dei prodotti più acquistati”. Senza dire dei flussi di merci verso l’Europa e l’Italia. Sempre parlando di agroalimentare, banane e frutta secca (come noci, mandorle, pistacchi e prugne) arrivano sostanzialmente via mare dalle Americhe: un blocco degli approvvigionamenti avrebbe danneggiato anche le industrie di trasformazione italiane.
Tensione alle stelle, quindi, per diversi giorni. Fino alla risoluzione del braccio di ferro e alla vittoria dei portuali. Sempre secondo il Corriere Ortofrutticolo, dopo quattro giorni di agitazione, l’accordo provvisorio raggiunto prevederebbe un aumento salariale del 62% in sei anni in favore dei lavoratori, ma anche la fine del blocco dei porti. Una svolta che ha allentato le preoccupazioni e avviato una graduale ripresa dei traffici.
Agroalimentare sempre più globalizzato, dunque. Anche se i consumatori non se ne rendono conto e, forse, nemmeno la maggioranza dei produttori. Quello del blocco dei porti statunitensi, d’altra parte, non è che l’ultimo esempio che illustra bene la rete di collegamenti (positivi e negativi) nella quale la produzione di cibo è collocata. Una rete di relazioni che, qualche mese fa, era balzata già alla ribalta delle cronache per mezzo delle conseguenze della guerra Russia-Ucraina e del conseguente blocco delle esportazioni di grano, soprattutto in favore dei paesi in via di sviluppo. In quel caso era stata una guerra a determinare effetti potenzialmente devastanti per milioni di persone. Pochi giorni fa uno sciopero a migliaia di chilometri di distanza ha rischiato di creare problemi simili.