Abbracci virtuali, lacrime reali. Da qualche tempo i social hanno cambiato anche il nostro modo di vivere il lutto
In questo tempo di pandemia, il dolore vissuto sui social, non è più realmente condiviso. E questo aumenta la solitudine e l’isolamento.
Viviamo da mesi sprofondati in una selva di numeri. Ogni giorno, attorno alle 18, le cifre aggiornate dei contagiati e, soprattutto, quelle dei decessi, rendono questa selva sempre più intricata e oscura.
La nostra società, che tende a tabuizzare e a nascondere la morte, vive da mesi con la morte a due passi da casa. Il virus, un tempo considerato un problema “altro”, perché nella lontana Cina, è arrivato in poco tempo dentro le nostre case. E là dove ha trovato spiragli d’azione, ha colpito senza alcuna pietà.
La città di Bergamo non dimenticherà mai quel 13 marzo dello scorso anno: sull’Eco di Bergamo vennero pubblicate dieci pagine di necrologi.
Per chi in questi mesi ha perso un parente o un amico, l’impossibilità di un ultimo saluto ha reso il dolore ancora più lancinante.
Anche il nostro modo di vivere la sofferenza è stato stravolto dal virus.
Tecnologie e social media sono diventati in questi mesi i nostri principali canali di contatto con il mondo che vive fuori dalle porte delle nostre case. Dapprima con le videochiamate, per rimanere in contatto con nonni, zii e amici. Poi con la Dad, che ha trasformato gli schermi di smartphone, pc e tablet in quelle aule in cui per ora – a causa della pandemia – non è possibile entrare. Trascorriamo ore e ore in spazi virtuali, come le “stanze” dei vari programmi di teleconferenze, come ad esempio Zoom, su cui da mesi ci si ritrova per fare riunioni di lavoro, corsi di aggiornamento e per programmare “da remoto” le proprie attività.
Da qualche tempo i social hanno cambiato anche il nostro modo di vivere il lutto.
Sempre più spesso l’annuncio della morte di un parente o un amico viene dato con un post su Facebook. E subito, indipendentemente dall’ora in cui questo viene pubblicato, ecco arrivare una valanga di faccine in lacrime, mani giunte in preghiera, cuoricini e abbracci (…sorridenti, dal momento che finora non esiste una emoji che descriva un abbraccio in un momento di lutto), parole piene d’affetto o da un più asettico “sentite condoglianze alla famiglia”.
Non di rado poi, capita di vedere in calce ad un necrologio frasi come: “Il funerale verrà celebrato domenica 28 marzo sulla piattaforma Zoom Meeting (il collegamento verrà aperto alle ore 15.30). ID riunione: xxxxx”.
Ai numeri dei contagi e dei decessi giornalieri, si sono aggiunti anche quelli che ci permettono di entrare in uno spazio virtuale dove dare l’ultimo saluto ad una persona cara. Uno spazio asettico, freddo e impersonale, che richiama subito alla mente quello dell’obitorio con i suoi lenzuoli bianchi. Ma in queste stanze virtuali, passate da luoghi di lavoro a spazi per il commiato, i lenzuoli bianchi non ci sono.
Nell’aria non c’è l’odore della cera delle candele che si intreccia al profumo dei fiori di cuscini e corone. Le lacrime che rigano il volto non si possono sciogliere nell’acqua santa. E questo le rende ancora più salate. Non ci sono gli occhi dell’altro, rossi dal pianto e protetti da lenti scure. Non c’è una parola di conforto, scambio di sguardi, cenni del capo.
In questo tempo di pandemia, il dolore vissuto sui social, non è più realmente condiviso. E questo aumenta la solitudine e l’isolamento. Gli abbracci virtuali non riescono ad asciugare le lacrime reali.
“C’è bisogno di gesti fisici, di espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo, tremito delle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte della comunicazione umana – scrive Papa Francesco nell’enciclica Fratelli Tutti (n. 43),parole queste, quantomai attuali –. I rapporti digitali, che dispensano dalla fatica di coltivare un’amicizia, una reciprocità stabile e anche un consenso che matura con il tempo, hanno un’apparenza di socievolezza. Non costruiscono veramente un “noi”, ma solitamente dissimulano e amplificano lo stesso individualismo. (…) La connessione digitale non basta per gettare ponti, non è in grado di unire l’umanità”.
All’inizio della Settimana Santa, che attraverso la Passione di Cristo ci accompagnerà alla grande festa di Pasqua, tornano alla mente le immagini della Statio Orbis di un anno fa: Papa Francesco da solo, sotto la pioggia, in una piazza San Pietro desolatamente vuota e silenziosa. Un momento in cui l’umanità barricata in casa si è ritrovata unita. Nella preghiera. “Camminavo così, da solo – ricorda oggi il Papa in un libro-intervista pubblicato nel 1. anniversario di quel 27 marzo – pensando alla solitudine di tanta gente… un pensiero inclusivo, un pensiero con la testa e con il cuore insieme… Sentivo tutto questo e camminavo”. E poi la tenerezza e l’intimità della preghiera davanti a Crocifisso di San Marcello al Corso. “Baciare i piedi del Crocifisso dà sempre speranza – spiega il Papa -. Lui sa cosa significa camminare e conosce la quarantena perché Gli misero due chiodi lì per tenerlo fermo. I piedi di Gesù sono una bussola nella vita della gente, quando cammina e quando sta ferma”.
I piedi martoriati di Cristo ci ricordano oggi che la la Passione è un cammino, doloroso e straziante, ma è pur sempre un cammino, che porta oltre la selva oscura del dolore e del pianto. Anche in questa pandemia. E usciremo insieme “a riveder le stelle”. Quel giorno gli abbraccio torneranno ad essere reali e le lacrime saranno lacrime di gioia.