Una leale collaborazione. Il Paese ha bisogno di istituzioni regionali efficienti e responsabili
Fino al voto di settembre, dov’erano in ballo presidenze di peso, il protagonismo talora scomposto e spesso altalenante di molti “governatori” regionali nella prima fase della pandemia – come pure nel corso della fugace tregua estiva – poteva essere attribuito alla frenesia elettorale. Che non rappresentava una giustificazione valida, certo, ma una spiegazione realistica sì.
Era quindi ragionevole sperare che, superata la sfida delle urne, si affermasse un atteggiamento più costruttivo e solidale. Purtroppo tale speranza è svanita appena i contagi hanno cominciato la loro risalita. Al premier Conte si potranno rimproverare tempi decisionali non fulminei, ma è innegabile che stia perseguendo una linea che ha una sua coerenza di fondo: fare tutto il possibile per cercare di evitare una nuovo lockdown generalizzato come quello di marzo, trovando in corso d’opera i punti di equilibrio ogni volta praticabili tra difesa della salute e salvaguardia delle attività produttive. Si può ovviamente dissentire, ma una rotta c’è. Semmai è per il dopo che non si vede ancora chiaro, in particolare sulla questione cruciale dell’impiego dei fondi straordinari europei.
I presidenti regionali invece hanno tenuto nel loro complesso (con i dovuti, significativi distinguo) un atteggiamento contraddittorio ai limiti del grottesco: prima hanno chiesto di poter decidere in autonomia, poi quando si sono visti assegnare più responsabilità hanno accusato il governo di fare lo scaricabarile, salvo successivamente recriminare per essere stati esautorati dall’alto nell’applicazione delle nuove misure. Che sono state prese sulla base di criteri di monitoraggio articolati su 21 parametri “condivisi con le Regioni in due incontri” e utilizzati da 24 settimane “senza che mai le Regioni abbiano portato obiezioni”, come ha puntigliosamente ricordato in Parlamento il ministro della Salute, Roberto Speranza. Sono le stesse Regioni, soprattutto, la fonte dei dati su cui si decide. Dati non così limpidi se in alcuni casi la magistratura ha avviato delle indagini per verificare la correttezza delle rilevazioni.
Prima di accusare l’esecutivo di aver intenzionalmente penalizzato le Regioni guidate dai partiti di opposizione (il centro-destra guida 15 Regioni su 20 e 12 di esse – compreso il Veneto di Luca Zaia – non sono state dichiarate “rosse” nella prima tornata di valutazioni che tante polemiche ha innescato), ci sarebbe da riflettere sull’uso delle istituzioni regionali come strumento di lotta politica nazionale. Nulla di nuovo, lo faceva già il Pci a suo tempo. Ma quel partito non controllava la stragrande maggioranza delle Regioni e quando è esplosa l’emergenza terrorismo il mondo politico nel suo insieme ha saputo trovare le forme per esprimere una risposta unitaria.
Oggi, anche a in seguito a un disegno costituzionale delle autonomie frutto di una riforma frettolosa e incompleta (quella del 2001), il sistema rischia di andare in tilt. L’organizzazione sanitaria sul territorio è una competenza fondamentale delle Regioni e non solo il mancato adeguamento di questi ultimi mesi, cominciando dalla disastrosa gestione dei vaccini anti-influenzali, ma anche le difficili condizioni di partenza pre-Covid sono imputabili in prima battuta proprio alle Regioni. Il Paese ha bisogno di istituzioni regionali efficienti e responsabili. Capaci innanzitutto di fare sintesi politica nei rispettivi territori, senza cavalcare in modo indiscriminato tutte le rivendicazioni settoriali, e di praticare quella “leale collaborazione” a livello nazionale che è il cardine del funzionamento del nostro sistema costituzionale.