Una brusca frenata. Il cammino del governo verso la manovra economica d’autunno si complica più di quanto non fosse già evidente
L’andamento dell’economia italiana nel secondo trimestre dell’anno è stato anche peggiore del previsto: -0,4% contro il -0,3% delle stime provvisorie diffuse dall’Istat a fine luglio, che già avevano registrato il passaggio in territorio negativo dei dati sul Prodotto interno lordo, dopo la lunga serie positiva del post-Covid. Un segnale preoccupante, tanto più se lo si legge contestualmente ad altre rilevazioni Istat, come quelle relative all’occupazione (-73mila occupati a luglio dopo sette mesi di crescita) e alla fiducia di consumatori e imprese (ad agosto lieve calo per i primi, diminuzione netta per le seconde).
Senza cedere a catastrofismi che in questa fase sarebbero fuori luogo – i dati statistici vanno presi sul serio ma evitando di trarne conclusioni semplicistiche o strumentali – il cammino del governo verso la manovra economica d’autunno si complica più di quanto non fosse già evidente. La frenata dell’economia rende ancora più ardua la ricerca delle coperture finanziarie per le iniziative che politicamente i partiti di maggioranza vorrebbero portare avanti. Con un debito pubblico elevato come il nostro (sui mercati paghiamo di interessi più di quanto investiamo nel sistema nazionale dell’istruzione, tanto per fare un esempio concreto), una robusta crescita del Pil unita alla riduzione delle spese è l’unica strada per avere risorse da investire senza alimentare il deficit in modo patologico. La controversa vicenda dei superbonus nell’edilizia è molto indicativa dei rischi che si possono correre: ora il costo dell’operazione per la casse dello Stato appare obiettivamente insostenibile anche al netto delle truffe miliardarie che sono state denunciate, ma allo stesso tempo sarebbe disonesto non riconoscere che senza il volano di quelle misure non si sarebbero avuti i tassi di crescita di cui l’Italia è andata fiera anche sul piano internazionale. Vedremo piuttosto come andrà a finire il percorso del Piano di ripresa e resilienza, che sulla carta avrebbe rappresentato davvero l’opportunità di una crescita virtuosa e lungimirante, capace di rinnovare strutturalmente il sistema Italia. Qui la politica ha perso colpi, al di là dell’impegno di singole personalità di governo, e nella nuova legislatura ha pesato anche la mancanza di un sostegno pienamente convinto e unanime circa l’intrinseca bontà dell’operazione, per pregiudizi ideologici o per interessi di parte. Serviva uno slancio corale per gestire efficacemente l’attuazione del Piano, uno slancio che si sarebbe potuto definire “nazionale”, cioè dell’intero Paese in quanto tale, oltre i pur legittimi schieramenti. Invece tra un governo e l’altro questo slancio ha perso progressivamente intensità e forse la frenata dell’economia di questi mesi è figlia anche di questo processo. Ma bisogna fare attenzione e non arrendersi perché, come ha affermato Sergio Mattarella parlando del futuro dell’Europa nel messaggio al Forum di Cernobbio, “la storia presenta sempre il conto delle occasioni perdute”. E in questo caso a pagarlo saremo noi e i nostri figli.