Un’autonomia su cui riflettere. Cosa aspettarsi dalle riforme

La domanda da porsi è se oggi, nel contesto attuale, il Paese abbia bisogno di una riforma che enfatizza le differenze e non piuttosto di una forte spinta alla solidarietà e alla coesione

Un’autonomia su cui riflettere. Cosa aspettarsi dalle riforme

La legge sull’autonomia differenziata prosegue la sua marcia parlamentare. Un percorso a tappe forzate che potrebbe portare all’approvazione definitiva prima dell’estate, magari in tempo per le elezioni europee. Bisognerà comunque vedere in concreto come si combinerà il percorso di questa riforma – storicamente un cavallo di battaglia della Lega – con quello del premierato, che per Giorgia Meloni è “la madre di tutte le riforme”. In questo secondo caso, trattandosi di legge costituzionale, l’iter sarà più lungo e con tutta probabilità dovrà passare anche per il referendum cosiddetto confermativo. Ma non c’è dubbio che anche per questa riforma la maggioranza cercherà di ottenere un risultato concreto (magari una delle due approvazioni parlamentari previste per le modifiche alla Carta) in tempo per la consultazione europea.
Eppure proprio la storia paradossale dell’autonomia differenziata dovrebbe suggerire una maggiore prudenza sull’uso elettorale delle riforme che investono gli assetti istituzionali. La possibilità di attribuire alle Regioni forme particolari e rafforzate di autonomia in ben 23 materie, alcune di evidente rilevanza nazionale – dalla scuola alle reti per la distribuzione dell’energia – porta infatti la firma della maggioranza di centro-sinistra che nel 2001 approvò la riforma del titolo V della Costituzione per rincorrere Bossi sul terreno del federalismo. Una riforma rimasta incompiuta come dimostra la norma transitoria che rinviava a ulteriori interventi di revisione (per esempio l’istituzione del Senato delle Regioni) rimasti solo a livello di buone intenzioni. Sono stati invece il centro-destra e in particolare la Lega ad appropriarsi dell’invenzione del centro-sinistra, che peraltro era arrivato già a sottoscrivere le intese preliminari con Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna a pochi giorni dalle elezioni politiche del 2018. Il che offre ora a Calderoli e alleati una formidabile arma dialettica nel rintuzzare le critiche dell’opposizione al disegno di legge proposto dall’attuale governo.
Ma dal punto di vista del bene comune non conta chi abbia cominciato per primo o chi abbia sbagliato di più. La domanda da porsi è se oggi, nel contesto attuale, con il mondo che dal 2001 è radicalmente cambiato e ha visto succedersi a un ritmo vorticoso eventi di portata epocale, con un aumento sistematico dell’individualismo e delle disuguaglianze, il Paese abbia bisogno di una riforma che enfatizza le differenze e non piuttosto di una forte spinta alla solidarietà e alla coesione. E’ una questione che prescinde dalle tecnicalità della riforma ma riguarda il senso delle priorità e il messaggio che la politica intende mandare agli italiani.
Dopo di che anche gli aspetti tecnici ovviamente contano. E qui la prima e preliminare osservazione da fare è che nessuno finora ha spiegato da dove si prenderanno i tanti soldi necessari per finanziare i Lep, quei livelli essenziali delle prestazioni che dovrebbero rappresentare la garanzia collettiva contro le discriminazioni dei cittadini per territorio. Che poi i Lep possano effettivamente svolgere questa funzione è tutto da dimostrare. L’esperienza di un loro parente stretto, i Lea, i livelli essenziali di assistenza vigenti da anni nel campo della sanità, non è per nulla rassicurante: se c’è un campo in cui le disuguaglianze hanno scavato solchi profondi tra le Regioni è proprio quello sanitario.

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Fonte: Sir