Trump e l’errore sulla Siria
Il ritiro delle truppe dal Nord-Est della Siria è considerato un errore strategico che oltre alle conseguenze esterne ha evidenziato la profonda divisione tra la segreteria di Stato (ministero degli esteri), che considera la Turchia elemento stabilizzante della zona, e il Pentagono (ministero della difesa) che al contrario considera i curdi “compagni d’armi” nella lotta contro l’Isis
Il ritiro parziale delle truppe americane al confine turco ha provocato l’opposizione di repubblicani e del Pentagono e mette a rischio la tenuta dell’esecutivo.
“Tutti dimenticheranno i tweet di Trump, ma nessuno dimenticherà se i nostri alleati curdi verranno massacrati”. Alex Conant stratega del partito Repubblicano (Gop) in politica estera, va dritto al punto e spiega senza mezzi termini che “gli errori in politica estera saranno molto più dannosi e duraturi delle altre azioni interne del presidente”. La reazione repubblicana alla decisione del Commander in chief di ritirare le truppe statunitensi al confine tra Siria e Turchia, lasciando al governo di Ankara mano libera nel bombardamento e nell’attacco alle postazioni curde, è dura e rischia di rompere l’idillio tra il presidente e i suoi più devoti sostenitori sia alla Camera dei Rappresentanti che al Senato.
Uno dei ribelli è stato proprio il portavoce al Senato, Lindsey Graham, tra i più acerrimi difensori del presidente e ora promotore di un’azione politica bipartisan per imporre durissime sanzioni alla Turchia, accusata in un suo tweet di aver “invaso la Siria”. L’annuncio di Trump sul ritiro, fatto senza spiegazioni e preavvisi, è stato giudicato fuori dal posizionamento storico del partito. Sono infatti parecchi i senatori, che hanno trascorso anni di studio e lavoro per venire a capo della situazione siriana e l’abbandono repentino degli alleati curdi ha fatto montare la rabbia, proprio nel momento in cui al presidente sarebbe servito il massimo appoggio del Senato sulla questione dell’impeachment, la messa in stato d’accusa per aver violato i suoi poteri chiedendo al presidente ucraino di indagare un avversario alle politiche del 2020. E non è bastata la retorica presidenziale sul ritiro delle truppe “dalle guerre senza fine” in Medioriente, né la prima labile condanna dell’operato di Erdogan (“cattiva idea”); né l’ultima dura uscita in cui intima al presidente turco di non violare la linea di accordo: l’assalto ai civili. Limite già valicato nei primi bombardamenti.
Il ritiro dal Nord-Est della Siria è considerato un errore strategico che oltre alle conseguenze esterne ha evidenziato la profonda divisione tra la segreteria di Stato (ministero degli esteri), che considera la Turchia elemento stabilizzante della zona, e il Pentagono (ministero della difesa) che al contrario considera i curdi “compagni d’armi” nella lotta contro l’Isis.
Ed è stata proprio l’intervista rilasciata su Fox News (rete di riferimento del presidente) da uno dei militari di stanza al confine che ha montato ulteriormente l’opposizione interna. L’uomo, un membro delle forze speciali statunitensi che ha contribuito all’addestramento delle forze democratiche siriane e dei curdi ha ripetuto sconvolto: “Per la prima volta nella mia carriera mi vergogno. I curdi hanno rispettato tutti gli accordi e non sono una minaccia per la Turchia. Nonostante gli attacchi, loro continuano a vigilare sulle prigioni dove sono detenuti i combattenti del cosiddetto stato islamico, ma non resisteranno a lungo e questi criminali rischiano di tornare liberi al più presto”. Il militare ha parlato di atrocità e spiegato che solo un centinaio di uomini su mille militari presenti sono stati ritirati, mentre agli altri è stato imposto di non intervenire, neppure con raid aerei, e di ignorare le richieste di aiuto dei curdi.
Il piano della Turchia era noto fin dall’ultima assemblea generale dell’Onu di due settimane fa, quando il presidente aveva annunciato un piano di reinsediamento di due milioni di rifugiati siriani, ora diventati un fardello politico e un costo sociale non indifferente. L’idea era quella di una zona di protezione in zona siriana dove la Turchia avrebbe realizzato i servizi: scuole, case, ospedali, moschee e gli Stati esteri avrebbero fornito supporto finanziario. Questa zona sicura di fatto è quella da strappare ai curdi, ma è quella che in maniera forzata la stessa Turchia aveva ripopolato la provincia con arabi e turkmeni da altre parti della Siria. Nel 2014 e 2015, Obama aveva ripetutamente chiesto a Erdogan di controllare il confine turco con la Siria, consapevole che fosse il varco attraversato liberamente dai combattenti e dalle armi dell’Isis e dove non pochi dei militanti feriti venivano a curarsi. Il presidente turco non ha preso provvedimenti, ma anzi si è opposto alla coalizione anti-Isis per salvare la città prevalentemente curda di Kobani. La Turchia, al contrario ha chiesto sia ad Obama che a Trump di impiegare un potenziale di 20mila militari, ma entrambi i presidenti si sono rifiutati preferendo investire sulla formazione di soldati locali, che ora però vengono abbandonati da chi li aveva istruiti a resistere.
Nonostante il segretario di stato, Mike Pompeo si sia affrettato a chiamare al telefono tutti gli alleati Nato per tranquillizzarli, la mossa di abbandonare alleati fedeli in Siria, ha compromesso la fiducia dei partner all’estero, dubbiosi sulla capacità di gestione Usa dei negoziati internazionali e non è stata assolutamente accettata all’interno anche se a decidere è stato il proprio presidente e Commander in chief.