Sul «genocidio» no alle tifoserie. Le parole del papa e la lezione di La Pira
In un mondo che da mille giorni naviga a vista per le ripercussioni della guerra scatenata da Putin con l’invasione dell’Ucraina, sta per iniziare un Giubileo che al momento pare passare sotto traccia. Troppe sembrano essere le sollecitazioni che l’opinione pubblica riceve – tra politica domestica e internazionale ed economia – per permettersi il lusso di cosa sia un Anno santo e del perché lo si celebri proprio nel 2025.
Una certa eco di tutto questo è arrivata domenica scorsa sui grandi media dopo che il quotidiano La Stampa ha anticipato qualche brano del libro che papa Francesco ha scritto proprio in vista del Giubileo, intitolato La speranza non delude mai, edito da Piemme. Ad accendere i riflettori sulla pubblicazione, tuttavia, è stata quella parola – «“caustica” per la pelle di Israele», l’ha definita Lucia Capuzzi su Avvenire – che pure Bergoglio scrive “in punta di penna”, con estrema delicatezza: «A detta di alcuni esperti, ciò che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio. Bisognerebbe indagare con attenzione per determinare se s’inquadra nella definizione tecnica formulata da giuristi e organismi internazionali». La reazione da parte dell’ambasciata israeliana presso la Santa Sede è stata rapace: «Il 7 ottobre c’è stato un massacro genocida» ha scritto su X, rivendicando il diritto di Israele all’autodifesa e ammonendo che «qualsiasi tentativo di chiamare questa autodifesa con qualsiasi altro nome significa isolare lo Stato ebraico». Ebbene, di fronte a questo scambio di vedute possiamo azzardare qualche riflessione su tre piani differenti. Anzitutto il papa e la sua vicinanza al popolo ebraico. Sono innumerevoli i gesti di simpatia (nel senso etimologico del termine) compiuti da Francesco: il suo passaggio al memoriale dello Yad Vashem nel 2014, il pellegrinaggio ad Auschwitz nel 2016, ma anche le udienze concesse ai familiari degli ostaggi nelle mani di Hamas proprio dal 7 ottobre 2023 oltre alla condanna dell’antisemitismo dello scorso 3 febbraio: «Peccato contro Dio». Non è un caso che il rabbino Abraham Skorka, anche lui argentino, in occasione del decimo anniversario del papato, abbia definito una «benedizione» la sua amicizia con Bergoglio. A spingere il papa a chiedersi se a Gaza non sia un corso un «genocidio» purtroppo sono le proporzioni del disastro umanitario in atto. In tredici mesi di bombardamenti abbiamo visto segregazione, fame, cacciata di operatori umanitari, interdizione totale della stampa internazionale all’area. Un mix di fattori che non si vedevano da decenni tutti insieme in un teatro di guerra, capace di sollevare i presagi più lugubri, pur volendo prendere con le pinze i numeri di morti e feriti diffusi giornalmente da Hamas. La reazione dell’ambasciata fa pensare ai due spalti occupati oggi dall’opinione pubblica occidentale. Da una parte chi pensa che Israele, dopo il 7 ottobre e in virtù di quanto ha patito nella Shoah, abbia diritto di fare di tutto. Dall’altra, chi era pronto a gridare al genocidio già al primo colpo sparato dall’Israel Defence Force. Nel mezzo, c’è un approccio razionale ed equilibrato che tutti siamo chiamati a privilegiare, anche se la cultura contemporanea a tinte forti rappresenta un vero ostacolo. Distinguere è necessario: anzitutto, il Governo di Israele non è la stessa cosa del popolo ebraico: è possibile solidarizzare con il popolo, per tutto il male subìto, e allo stesso tempo condannare le scelte di Benjamin Netanyahu. Di più: è possibile provare compassione per il popolo ebraico e allo stesso tempo per i palestinesi di Gaza, letteralmente massacrati nell’ultimo anno. Un ultimo passo, ancora più delicato: possiamo sentire la vicinanza per i piccoli, le famiglie falcidiate, i vecchi abbandonati, i vedovi, gli orfani di Gaza senza che questo si traduca nel sostegno al terrore di matrice islamica. Viene il Giubileo, dicevamo, che ci interpella come “Pellegrini di speranza”. Sperare contro ogni speranza è l’atteggiamento che san Paolo attribuisce ad Abramo. Ma è anche il motto adottato dal La Pira in piena guerra fredda. Adesso tocca a noi.