Settimana sociale. Nerozzi (Comitato scientifico): “In Italia manca speranza ma non il desiderio di testimoni, unità, cura per il bene comune”
Nel Paese “c’è sicuramente un grande disorientamento su quello che la politica fa” anche per la “conflittualità, che è ritenuta eccessiva”. Ma – spiega il segretario del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali dei cattolici – “non dobbiamo pensare che i cittadini non desiderino più partecipare o non desiderino più un’offerta politica ricca”. A Trieste “il clima che si è respirato fin da subito è stato molto buono”, aggiunge, evidenziando che “abbiamo capito che è importante fare rete”. Conclusi questi giorni, si riparte con “la consapevolezza che è possibile lavorare sui territori come abbiamo fatto qui”
“In questo momento in Italia c’è sicuramente un grande disorientamento su quello che la politica fa; c’è una conflittualità che è ritenuta eccessiva e di fronte a volte alle schermaglie tra i partiti e tra i leader, i cittadini si rifugiano nel proprio privato perché non vedono la speranza. Ma questa mancanza di speranza non ci deve confondere; non dobbiamo pensare che i cittadini non desiderino più partecipare o non desiderino più un’offerta politica ricca. Evidentemente c’è il desiderio di testimoni, di unità, di cura per il bene comune che forse ancora oggi manca. Far crescere questa sensibilità anche tra chi già si impegna in politica è un modo per fare un servizio al Paese”. Così Sebastiano Nerozzi, segretario del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali dei cattolici in Italia, sintetizza al Sir il contributo offerto dalla 50ª edizione svoltasi a Trieste dal 3 al 7 luglio.
Professore, in questi giorni intensi qual è stata la qualità della partecipazione?
È stata alta. Innanzitutto grazie al fatto che le persone si sono lasciate molto coinvolgere e a un certo punto hanno anche trovato il loro percorso personale attraverso i tanti momenti che venivano offerti. E poi perché il clima che si è respirato fin da subito è stato molto buono, nonostante il programma intenso e le tante cose da fare. Poi ha pesato moltissimo il fatto che la città sia stata sostanzialmente tappezzata a festa e disseminata di stand delle buone pratiche: tutto questo ha concretamente dato l’idea di
una Settimana sociale che non si è svolta solo all’interno di una struttura dedicata ma anche per le vie e nelle piazze della città. Questo ha permesso alle persone di toccare con mano cosa vuol dire fare partecipazione, cosa vuol dire fare cittadinanza attiva.
Cosa l’ha sorpresa?
La voglia di incontrarsi dei partecipanti, il grande lavoro che hanno fatto i volontari soprattutto per accogliere i delegati con molta gentilezza, molta proattività: questo è stato subito notato e ha dato ritmo e tono all’esperienza. Poi l’interesse per le splendide buone pratiche che sono state selezionate in questi mesi tra le tante proposte che ci sono arrivate e che veramente danno l’idea di che cosa vuol dire fare partecipazione nei territori, in ambiti specifici come l’agricoltura o l’economia civile, nei Comuni, nelle aree interne… Queste forme di partecipazione così variegata ci restituiscono un grande ventaglio su quello che potremmo fare anche nei prossimi mesi.
Quale il dato acquisito dalla preparazione e celebrazione della 50ª Settimana sociale? Cosa non potrà essere più come prima (modalità, percorso…) dopo Trieste?
Abbiamo capito che
è importante fare rete, perché ogni esperienza – per quanto abbia un suo carisma, una sua forza, una sua platea di riferimento – per arricchirsi, per crescere, per essere sostenibile nel tempo ha bisogno di allacciarsi agli altri, trovare sinergie e collaborazioni.
Certo, è un equilibrio sempre un po’ difficile quello tra il collaborare con altri e il coltivare il proprio gruppo, la propria attività; però non è possibile scegliere uno dei due estremi.
Fare rete è sicuramente una delle risorse, non un problema.
Un altro elemento fondamentale è stato quello della leadership e della followership:
le persone, anche quelle che non hanno un ruolo di guida, devono essere coinvolte, avere la possibilità di mettere in gioco i propri talenti, la propria visione e prospettiva. Occorre che si sviluppi un dialogo che è fondato innanzitutto sulla capacità di ascoltare; e i primi a dove ascoltare sono proprio i leader, a tutti i livelli, dalle piccole associazioni fino ai massimi livelli che ogni giorno sono agiti e rappresentati sui grandi media.
Con che consapevolezza si riparte da Trieste?
Certamente con quella che
è possibile lavorare sui territori come abbiamo lavorato qui.
Riprendendo qualche idea e offrendola da Trieste al territorio, perché anche le diocesi, le associazioni, le buone pratiche nel proprio contesto portino uno spirito che è quello del coinvolgimento, dell’apertura a tutti i cittadini, della proposta di modalità nuove di incontrarsi. La Settimana sociale non è solo una vetrina, un convegno pubblico, ma anche un modo per costruire rete e collaborazioni. Lungo tutto il percorso abbiamo dimostrato che
è possibile e decisivo ascoltarsi, al di là delle proprie storie personali, cercare punti d’incontro affinché la condivisione dei contenuti diventi un nuovo contenuto che appartiene a tutti. Questo tipo di interazione può essere riproposta anche nei territori.
Questi giorni a Trieste non sono terminati con delle conclusioni ma con alcuni piste di lavoro specifiche, offerte dal Comitato scientifico e organizzatore, che le diocesi potranno vivere nel processo di ricaduta almeno per tutto il prossimo anno pastorale, fino a maggio 2025. Stiamo entrando nel grande Giubileo e stiamo vivendo anche una fase importante del cammino sinodale: questi appuntamenti si intrecciano con la Settimana sociale, è un modo per vivere nelle Chiese locali l’impegno ecclesiale ad essere comunità che partecipano.
Che messaggio Trieste consegna alla società italiana?
Alla Settimana sociale hanno partecipato, come sempre, persone che sono cittadini. E la Chiesa non può non essere in uscita. Le comunità cristiane sono punti di riferimento nei territori per tutti, non solo per i cristiani; sono luoghi d’incontro. Vogliamo vivere più consapevolmente la dimensione di apertura, diventando sempre più una comunità accogliente, che essendo presente nei territori si fa carico dei bisogni, delle aspettative e cerca anche di valorizzare le risorse che sono sparse nei territori.
Vogliamo essere una Chiesa sempre in dialogo che, nello spirito della lettera “A Diogneto”, vive nella città e fa vivere la città, assorbe anche dalla città quello che la città propone e può offrire in termini di risorse, riflessioni e competenze.
Il dialogo tra civile ed ecclesiale continuerà sicuramente, ogni stagione ha i suoi strumenti: quelli che stiamo cercando di mettere in campo sono un modo per parlare a tutti i cittadini, non solo ai cattolici.
Alberto Baviera