Sarco: dietro l'”humana pietas” forse solo uno squallido buiness
Ad un primo sguardo, si ha l’impressione di trovarsi davanti ad una piccola navetta spaziale monoposto, una scintillante capsula aerodinamica dall’aspetto marcatamente avveniristico, come fosse pronta a spiccare il volo verso il futuro, verso nuove speranze per l’umanità. Ma è solo un’illusione. Nessun futuro e nessuna speranza per un domani migliore. Perché, in realtà, “Sarco” – termine piuttosto tetro con cui l’hanno denominata i suoi ideatori, - è una macchina capace soltanto di dare la morte, un dispositivo progettato e realizzato per attuare il suicidio assistito.
Ad un primo sguardo, si ha l’impressione di trovarsi davanti ad una piccola navetta spaziale monoposto, una scintillante capsula aerodinamica dall’aspetto marcatamente avveniristico, come fosse pronta a spiccare il volo verso il futuro, verso nuove speranze per l’umanità.
Ma è solo un’illusione. Nessun futuro e nessuna speranza per un domani migliore. Perché, in realtà, “Sarco” – termine piuttosto tetro con cui l’hanno denominata i suoi ideatori, – è una macchina capace soltanto di dare la morte, un dispositivo progettato e realizzato per attuare il suicidio assistito.
Sviluppata, già nel 2017, dal medico australiano Philip Nitschke, sostenitore dell’eutanasia e fondatore dell’organizzazione Exit International (un’azienda con sede nei Paesi Bassi), Sarco è stata prodotta mediante l’uso della stampa 3D (con un costo che supera il milione di dollari).
Strutturalmente, si tratta di una cabina ermetica, con la forma di un ovale allungato, grande all’incirca quanto una bara e, quindi, trasportabile in qualsiasi luogo. Sarco è stata appositamente progettata per contenere gas azoto, che viene rilasciato dopo la pressione di un pulsante da parte dell’aspirante suicida. In pratica, la persona che vuole morire si corica al suo interno e, premendo un solo pulsante, attiva un meccanismo con il quale l’azoto liquido, precaricato in un contenitore, viene istantaneamente fatto evaporare e immesso nella cabina del dispositivo. In questo modo, il livello di ossigeno all’interno della “navetta” scende al di sotto del 5% in meno di un minuto (condizione di ipossia), provocando prima la perdita di coscienza della persona aspirante suicida e, subito dopo, il suo decesso per asfissia da azoto nel giro di circa cinque minuti.
Una macchina, dunque, che, nella considerazione dei suoi ideatori, offrirebbe una “morte rapida, pacifica e affidabile”, con il “vantaggio” (ma lo è davvero?) di non necessitare dell’assistenza di un medico o dell’impiego di farmaci.
Fatto sta che, dalla sua produzione fino ad oggi, Sarco non era mai stata utilizzata da nessuno. Qualche giorno fa, invece, per la prima volta, una donna americana di 64 anni, sofferente per una grave malattia immunitaria, ha deciso di ricorrere a questo strumento per attuare il suo proposito suicidario. Ad organizzare il tutto, in Svizzera, è stata l’organizzazione pro-eutanasia “The Last Resort”, che ha scelto un luogo all’aperto, in una foresta vicino al confine con la Germania (Merishausen, cantone di Sciaffusa). Lì è stato trasportato il dispositivo di cui si è servita la donna per portare a termine il suo intento.
A onor di cronaca, l’episodio ha registrato anche uno strascico legale. Infatti, sebbene in Svizzera già dalla fine degli anni ’70 il suicidio assistito sia consentito (alle condizioni di legge), in questo caso le autorità giudiziarie elvetiche hanno ritenuto di dover aprire un’inchiesta per istigazione al suicidio, procedendo all’arresto cautelare di diverse persone coinvolte nel fatto. A detta della consigliera federale Elisabeth Baume-Schneider, infatti, l’impiego di Sarco non rispetterebbe le normative di sicurezza previste dalla normativa in vigore. Ma anche a livello internazionale Sarco ha già generato polemiche, con critiche riguardanti la facilità d’uso e l’autonomia che offre agli individui per mettere fine alla propria vita, senza la necessità di assistenza medica diretta.
Il punto di fondo, però, è evidentemente un altro: siamo di fronte ad una trovata tecnologica (più o meno avanzata), pensata ad arte – e con evidenti “attenzioni” estetico-romantiche ad hoc – per assecondare un gesto umano disperato, forse il più disperato, che guarda alla morte procurata come unica via d’uscita possibile per la propria condizione di sofferenza. Il tutto – manco a dirlo – dietro lauto pagamento.
Viene spontaneo chiedersi: non è che, per caso, si tratta solo di uno squallido business tecnologico, mascherato da “humana pietas”, ma che in realtà si limita a sfruttare cinicamente la condizione di debolezza di una persona, fino ad assecondarne il suicidio, a scopo di lucro, senza scrupoli di sorta? In tutta sincerità… il dubbio permane.