Preghiera…da spiaggia. Ritmo dance, un’anima soul e un’atmosfera allegra, “Jerusalema” ha conquistato proprio tutti
Ogni estate ne ha uno. Un motivetto ritmato e orecchiabile, che scandisce il trascorrere delle giornate più calde.
Nel 2010, quando gli Azzurri vennero eliminati dopo appena 270 minuti dai Mondiali di calcio in Sudafrica, a noi, popolo di ct da salotto, costretti a riporre anzitempo le vuvuzela, non restò che consolarsi con le note di “Waka Waka” (This Time for Africa) di Shakira.
Cinque anni più tardi, ci siamo scatenati sotto “El mismo sol” (lo stesso sole), auspicando, insieme ad Alvaro Solér, che “el mundo sea uno” (il mondo si riunisca), “del este hasta oeste” (da est a ovest). Ed è stato ancora Alvaro Solér a farci ballare, dodici mesi più tardi, con “Sofia”, storia di un amore perduto, che – singolare ossimoro musicale – grazie ad una melodia originale e trascinante sprizzava gioia di vivere a ogni accordo. Il tutto mentre ondeggiavamo con Fabio Rovazzi le spalle all’indietro, tenendo il naso rivolto al cielo e ripetendo ad una sola voce “andiamo a comandare”.
Nel 2017, con Thegiornalisti, abbiamo “fatto a schiaffi con le onde, con il vento, sotto il sole di Riccione”, mentre nel 2018 abbiamo assottigliato “La cintura” (il girovita) seguendo ancora una volta Alvaro Solér per le strade di Cuba. Lo scorso anno abbiamo accantonato il mito della vacanza all’estero, unendoci al ballo scatenato di J-Ax e delle sue “girls” a “Ostia Lido”, sulla cui spiaggia, dopo esserci scoperti novelli architetti da battigia, ci siamo intrattenuti a costruire “case popolari di sabbia”.
Ebbene sì. Ogni estate ne ha uno. Un motivetto ritmato e orecchiabile, che scandisce il trascorrere delle giornate più calde. Un tormentone, che – nonostante sia ripetuto in maniera ossessiva – più che darci il tormento ci regala divertimento.
Anche il 2020, nonostante tutte le sue mestizie, ha avuto il suo. Un tormentone che, nell’estate del distanziamento, ci ha fatto sentire un po’ più vicini. Un tormentone che, grazie alla challenge lanciata su Tik Tok, è diventato presto virale. Un virus buono, s’intende, diverso dal virus che da mesi sta seminando paura e morte in tutto il mondo.
Ritmo dance, un’anima soul e un’atmosfera allegra, “Jerusalema” ha conquistato proprio tutti, spopolando tra giovani e meno giovani.
Pubblicato nel novembre dello scorso anno, il brano afro house del musicista e produttore sudafricano Master KG, cantato in lingua Venda (una lingua del Sudafrica) dalla ventiseienne Nomcebo Zikode, in questi mesi estivi ha ottenuto un inaspettato successo dal Sudafrica alla Cina, passando per Europa e America. Il video ufficiale ha superato i 115 milioni di visualizzazioni, mentre sono oltre 70 milioni i video che hanno come protagoniste decine di persone di ogni età e di ogni provenienza, impegnate ad eseguire la coreografia legata a questo brano. La versione di maggior successo è quella dei “Fenomenos do Semba”, un gruppo di ragazzi angolani che ballano – con tanto di piatti, posate e pentole – mentre mangiano, prendendo qualche boccone tra un passo e l’altro.
“Jerusalema” è stato in questi mesi il ballo di gruppo più gettonato e distanziato delle nostre spiagge. Ma non solo. È arrivato anche nei piazzali di ospedali, scuole e case di riposo, sui sagrati delle chiese e nei cortili delle caserme, a nord e sud dell’equatore.
Non sono mancati, certo, i tutorial. C’è chi ha spostato i mobili del soggiorno per far spazio ai passi di danza e chi come sala prove ha scelto il corridoio dei garage di casa. In campo sono scesi maestri di danza (e non solo) di ieri e oggi, pronti a scandire l’iconico “cinc sei sett ott(o)”. Il tutto mentre in sottofondo scorrevano le note e le parole del brano: “Jerusalema/ ikhaya lami/ Ngilondoloze/ Uhambe nami”.
Non usando la stragrande maggioranza di noi abitualmente il Venda (la lingua della canzone), viene da chiedersi quale sia il significato del brano del momento. “Jerusalema” altro non è che una preghiera gospel della chiesa evangelica sudafricana, in cui si chiede a Dio Padre di guidarci per poterci incontrare nella Gerusalemme celeste. “Gerusalemme è la mia casa, guidami, portami con te non lasciarmi qui – questa la traduzione del brano -. Il mio posto non è qui, il mio Regno non è qui, guidami, portami con te”.
Strano a dirsi, ma nell’estate del distanziamento e della paura del contagio, ci siamo ritrovati tutti virtualmente riuniti in cammino verso “Jerusalema”, Gerusalemme, città in cui si incontrano e convivono (non senza difficoltà) religioni, culture e popoli diversi.
Complice sicuramente l’aria di mare e il rilassante sciabordio delle onde sulla battigia, il testo ripetitivo di “Jerusalema” non è stato vissuto con quel lieve senso di malcelata insofferenza che salta fuori quando ci capita di ascoltare una litania più o meno strascicata. Al contrario la litania di “Jerusalema” ha “mutato la nostra tristezza in danza” (Sal 30), coinvolgendo tutti, proprio tutti, indistintamente.
E mentre nelle chiese – di per sé già da tempo tutt’altro che sovraffollate – la lode a Dio è faticosamente ripresa secondo i consolidati canoni della tradizione, che hanno dovuto fare i conti con le nuove norme e distanze di sicurezza (cosa su cui ancora oggi non pochi “dottori della legge”, dall’alto dei loro scranni, continuano a dibattere e disquisire, metro e disinfettante alla mano), la preghiera si è spostata nei cortili e sulle spiagge, dove mai prima d’ora si è pregato, inneggiato e ballato così tanto al Signore.