Omotransfobia. Eusebi: “No a utilizzo rafforzato del diritto penale a supposto beneficio di specifiche categorie di persone”
Procede a marce forzate in Commissione Giustizia alla Camera l’esame del disegno di legge Zan in materia di contrasto all’omotransfobia che approderà in Aula il 27 luglio. Luciano Eusebi, docente di diritto penale all’Università Cattolica, mette in guardia dai rischi di norme penali che intervengano per specifiche categorie di persone offese o per accreditare socialmente determinati stili di vita
Procede a marce forzate in Commissione Giustizia alla Camera l’esame del disegno di legge Zan in materia di contrasto all’omotransfobia che approderà in Aula il 27 luglio. Luciano Eusebi, professore ordinario di diritto penale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e consigliere di “Scienza&Vita”, mette in guardia dai rischi di norme penali che intervengano per specifiche categorie di persone offese e avverte che non è compito del diritto penale “accreditare “socialmente nuove sensibilità o determinati stili di vita.
Professore, ritiene l’attuale quadro normativo adeguato al contrasto dell’omotransfobia o vi ravvisa delle lacune da colmare introducendo specifiche aggravanti?
Il problema attiene proprio alle richieste di una continua estensione del ricorso alle ‘armi pesanti’ del diritto penale per rispondere a qualsiasi esigenza che si ritenga di affermare. Circa il tema in esame, l’attenzione sembra incentrarsi, peraltro, soltanto sul timore che le norme all’esame del Parlamento possano condurre a criminalizzare le opinioni: ma non si tratta, soltanto, di evitare questo esito. E non si tratta, soprattutto, di porsi in contrasto con alcuno: se, davvero, il fine fosse quello di sensibilizzare al rispetto di tutti, quali che siano le sue scelte in ambito affettivo o sessuale, su ciò potrebbe ben sussistere il massimo accordo.
La questione, tuttavia, è se, per questo fine, si debba creare per la prima volta un diritto penale che intervenga per categorie di persone offese, e non per norme generali
(le quali, in effetti, già esistono con uno spettro applicativo assai ampio). Facendo leva, per giunta, sul ricorso radicalizzato allo strumento maggiormente divisivo tra le persone (la pena detentiva, con i relativi corollari), come tale il meno idoneo a recuperare, dopo eventuali fatti incresciosi, il riconoscimento, da parte del loro autore, della dignità di chi sia stato offeso: il che richiederebbe, piuttosto,
percorsi di giustizia riparativa, ben maggiormente idonei ad assumere un impatto culturale significativo.
L’enfasi su un utilizzo rafforzato del diritto penale a supposto beneficio di specifiche categorie di persone – ma perché non anche di molte altre? del resto, le suddette categorie hanno davvero interesse ad auto-identificarsi come categorie ‘differenziate’? – finisce, allora, per far emergere quello che i giuristi di matrice liberale denunciano, da sempre, come un obiettivo indebito di cosiddetta “moralizzazione” attraverso il diritto penale:
obiettivo consistente non già nel garantire una miglior tutela in concreto di qualcuno, bensì nell’accreditare socialmente nuove sensibilità o costumi (nel nostro caso, determinati stili di vita). Il che non è compito del diritto penale.
Intravede il rischio di una legge liberticida che possa introdurre una sorta di reato di opinione?
Un ricorso ‘simbolico’, nel senso predetto, al diritto penale – che fra l’altro colpirebbe per lo più, attraverso gli aggravamenti di pena, autori di reato con problemi di socializzazione e di acculturazione, bisognosi di approcci meno semplificatòri – porta facilmente a proporre estensioni, assai poco compatibili col principio di legalità, di reati connessi al ‘dire’, piuttosto che al ‘fare’. In tal senso, punire chi ‘istiga’ a commettere, o commette, atti di ‘discriminazione’, come richiede, per i motivi in esso previsti, il disegno di legge in esame, significa utilizzare (sulla base di una mera intenzione soggettiva) concetti tra i più indeterminati. E non basta, a tal proposito, rilevare che,
in linea di principio, l’istigare nel senso predetto (che diverrebbe illecito) è cosa diversa dal ‘propagandare’ idee (che resterebbe lecito): non può lasciarsi, infatti, la fissazione di un simile confine al fluttuare delle letture giudiziarie e al rischio di apertura, qui e là, di procedimenti penali per supposte istigazioni discriminatorie
(fra l’altro, con rilievo accessorio dell’eventuale condanna circa la partecipazione dell’interessato ‘ad attività di propaganda elettorale’). Non abbiamo bisogno di giocare sul filo della contrazione del diritto democratico più tipico, qual è quello di opinione. Già il problema si era posto per le disposizioni vigenti di cui all’art. 604-bis del Codice penale: essendosi ritenuta accettabile, tuttavia, l’introduzione eccezionale di tale norma, perché riferita a concetti fortemente oggettivizzati e, dunque, nella sostanza indipendenti dal sentire soggettivo (appartenenza etnica, nazionale o religiosa), nonché correlati sul piano storico a vicende di genocidio.
Se l’intento, nondimeno, volesse essere soltanto quello di promuovere il reciproco rispetto, potrebbero darsi molti spazi di dialogo per individuarne le modalità, anche identificando specifici atti discriminatòri vietati: ma non attraverso l’illecito di carattere penale, né creando inedite agenzie per finalità promozionali che dovrebbero rimanere ricomprese, invece, nelle attività sociali ed educative di carattere generale.