Oltre le etichette. Jean de Saint-Cheron difende il cristianesimo dall’accusa di essere “borghese”
Credente come borghese, insomma, il titolo del libro lo mette bene - e polemicamente - in evidenza
Jean de Saint-Cheron è un giovane intellettuale francese che ha aperto una delicata questione con il suo “Chi crede non è un borghese” (Libreria Editrice Vaticana, 200 pagine, 16 euro, prefazione di Roberto Righetto). Sarebbe meglio dire riaperto, perché sia all’interno del mondo più generalmente cristiano sia in quello laico è sempre esistita una visione dell’uomo di fede come attento esecutore di precetti e di obblighi, senza un barlume di vera, sentita comunione con lo spirito originario.
Credente come borghese, insomma, il titolo del libro lo mette bene -e polemicamente- in evidenza. De Saint-Cheron ammette certamente che ci siano cristiani solo Messa domenicale, stanca osservanza di festività, prescrizioni, e poi chiusura nel salotto buono a godersi partite con quasi tutti gli abbonamenti possibili e programmazione della vacanza. E però, scrive l’autore, “per un cristiano è decisamente impossibile essere un borghese, vale a dire un bipede non animato da un’urgenza maggiore che non sia quella di rifugiarsi in una quieta calma digestiva”.
In effetti de Saint-Cheron ci va giù pesante, con qualche eccessiva tendenza a formulare categorie. Un credente, pur “borghese”, sarà sempre diverso da un altro che potrebbe alla lontana essere messo in questa categoria, anche perché all’interno delle case “borghesi” esistono varianti che si chiamano sofferenze cliniche e psichiche, difficoltà economiche, esistenze stentate per anni e anni prima di trovare un lavoro, lo zaloniano, mitico posto fisso.
Certamente l’autore allude più ad una categoria astratta che a un gruppo sociale omogeneo, ma quello che più importa in questo libro è la presenza di autori che sfatano molti luoghi comuni anti-cristiani. Houellebecq, Bloy, Bernanos, Simon Weil, Chesterton, Flannery O’Connor, de Foucauld e molti altri hanno narrato, e lo fanno tuttora, una vita che appare in balìa del male, dove la fede non è unicamente osservanza di precetti, ma lotta contro l’apparente insensatezza dell’esistenza.
Arrivare al bene e alla verità non solo nei primi banchi della chiesa, ma nel fango delle miserie umane, nell’incontro con il male: questo è il loro messaggio. Chesterton ha narrato splendidamente questo accidentato cammino in un’opera non citata in questo libro e che invece rappresenta lo sprofondamento nel buio del male e la possibilità di contribuire all’avvento della Grazia: “L’uomo che fu Giovedì”.
In realtà de Saint-Cheron dice molto altro, un altro che la modernità ha rimosso: l’attacco congiunto alla fede nasconde talvolta il vero vivere borghese, tutto immerso nelle cose, nel consumo, perfino -e soprattutto- quello di una sessualità fine a se stessa e priva di ogni progetto comune. Tutto è consumabile, ogni cosa ha una sua scadenza, poi si arriva alla stazione finale, si scende, arrivederci, è stato un (falso) piacere in una vita che è consumismo dall’inizio alla fine.
Ulteriore merito di questo libro è di presentarci un’altra realtà, quella dei santi, allontanandola dai luoghi comuni, per evidenziarne la continua lotta, la tentazione di precipitare nel non senso, nel dubbio o nella carnalità fine a se stessa. Via l’immaginetta stereotipata dei santini, insomma, e svelamento di come il cammino della santità, e quello di ognuno di noi, sia passaggio nell’altro e con l’altro, dolore e rischio, fallimento e redenzione.
E fa bene l’autore a citare il filosofo Henri Bergson, che ha lottato contro un pensiero unicamente materialista con la sua visione della vita in continuo movimento e cambiamento, uno slancio vitale che non conosce limiti definitivi: nonostante il “borghese” materialismo, qualcosa e qualcuno ci spinge ad un senso più profondo, ben oltre definizioni ed etichette.