Lo sport inclusivo migliora la società. Baskin, mixed ability rugby, powerchair hockey e non solo
Baskin, mixed ability rugby, powerchair hockey e non solo. Vi dicono qualcosa? Sono attività sportive che trovano sempre più partecipazione, grazie a uno sguardo differente. Così si superano le disabilità per valorizzare le abilità di tutti
«È necessario vedere l’abilità e non la disabilità di chi gioca, concentrandosi su quello che sa fare». Sono parole inequivocabili, espresse con tanta forza e persuasione, quelle pronunciate da Sira Miola, vicentina, membro del Consiglio nazionale del Comitato italiano paralimpico (Cip) e vicepresidente dell’Ente italiano sport inclusivi (Eisi). Al centro c’è il tema dell’inclusione nello sport e come, per non escludere nessuno, sia necessario mettere in risalto le capacità di ognuno, le cosiddette «competenze motorie». In una società – e lo sport ne rappresenta lo specchio – dove si tende sempre all’eccellenza, la fragilità e il limite vengono camuffati, posti nella penombra delle esistenze, affinché non vengano riconosciuti come tali. È la persona portatrice di queste caratteristiche a venir scartata, così come quella che non riesce più a tenere certi livelli. E c’è chi dice no a questo modello, a questa tendenza che sembra inarrestabile, avendo chiaro che uno sport inclusivo aiuta a costruire una società che non esclude nessuno. Tra queste c’è Sira Miola. Le sue riflessioni su questi temi vengono da lontano: prima la professione di insegnate a contatto con gli studenti delle scuole medie, scelta fatta perché «è l’età della preadolescenza in cui si può fare molto sotto l’aspetto educativo e tantissimo attraverso lo sport», poi occupandosi del mondo dell’attività motoria, soprattutto nel suo valore educativo e nell’essere per tutti. Per lei «lo sport è inclusivo quando tutte le persone con le più diverse abilità, maschi e femmine, con competenze differenti dal punto di vista motorio, possono giocare in una stessa squadra per il raggiungimento dello stesso obiettivo, il risultato finale». Sira non parla di disabilità ma di abilità, «perché se pensiamo al disabile come persona che ha delle abilità, seppur residue, intendiamo valorizzare ciò che possiede». Per realizzare l’inclusione l’esperta mette in luce la necessità di riprogettare le discipline sportive, lavorando sul regolamento, sui materiali, sugli spazi, «in modo tale che queste differenze vengano regolate e possano essere parte del gioco stesso». Il primo sport modificato, smascherando l’utopia che poteva celarsi in certi pensieri sì nobili, ma apparentemente poco praticabili, è il baskin, la «rivoluzione» sui parquet di basket, da cui trae ispirazione. Nato nel 2001 a Cremona, da questa intuizione ha preso avvio nel 2019, l’Ente italiano sport inclusivi (riconosciuto dal Cip quale ente di promozione paralimpica), che si propone di riprogettare gli sport più comuni in chiave appunto inclusiva. Oggi conta più di 200 società sportive e quasi ottomila tesserati di cui la metà sono persone con disabilità. «Noi dell’Eisi riprogettiamo le discipline affinché chi è disabile e chi non lo è abbia le stesse possibilità di successo, con la fatica di arrivarci, senza nessuno sconto». E non fa sconti nemmeno il baskin, che Sira Miola considera «magico, perché con i diversi ruoli ricoperti dai giocatori, permette a tutti lo stesso grado di partecipazione e le medesime opportunità di realizzazione. In loro c’è la stessa soddisfazione nel momento in cui fanno canestro. È un incastro di atleti, quasi un puzzle, che mostra nel complesso la bellezza nel vederli giocare, facendo una fatica proporzionata alla propria situazione. È insieme che costruiscono questo puzzle, in una squadra che ha bisogno di tutti, dell’impegno di ciascuno». In Veneto il baskin conta 33 squadre e quasi duemila tesserati. A Padova ci sono cinque società, con 140 atleti e un’età dagli 11 ai 60 anni circa (la squadra junior è dagli 11 ai 16 anni). Sono riunite nell’associazione Run&Jump. A portare quest’attività in città nel 2016 è stato Massimo Caiolo, oggi presidente di Run&Jump. «Il baskin ha in sé delle caratteristiche bellissime – spiega Massimo – fondamentali anche per la società: l’inclusione, l’accoglienza, l’integrazione e la collaborazione, dove nessuno deve rimanere indietro. Le difficoltà del singolo da sfortuna diventano un’opportunità di incontro per crescere insieme. Le fragilità possono essere una risorsa. È un vero sconvolgimento». Le squadre sono composte da giovani, adulti, uomini e donne; c’è chi viene dal mondo del basket e chi no. Giocano normodotati e disabili e su fanno tornei regionali a cadenza annuale e ogni due anni a livello nazionale. Tra le giocatrici c’è Alessia Cavalletto, trent’enne originaria di Piove di Sacco ma padovana da qualche anno. È entrata nel Baskin Padova nel 2020 «ed è una delle scelte più azzeccate e giuste che io abbia deciso di prendere. A ogni allenamento e partita i ragazzi con cui gioco mi danno una grande energia, la loro semplicità e vicinanza fanno passare ogni tipo di pensiero. Giocare a baskin mi dona serenità e pace perché ognuno è veramente libero di essere sé stesso». Un altro aspetto che la giovane ha scoperto praticandolo è che «ognuno, tanto o poco che sia, è necessario al fine di far funzionare la squadra, facendo ciò che può con le proprie possibilità. Ciascuno si sente responsabilizzato a fare la sua parte in un’orchestra che deve suonare e può farlo in maniera armonica. È meraviglioso».
Un altro sport dove la parola inclusione è di primaria importanza è il mixed ability, con al centro una palla ovale. È una modalità di gioco del rugby, praticato da persone con abilità miste. Nella città del Santo la squadra è il Padova mixed ability rugby che fa parte del Patavium rugby union, con sede a Rubano. Nata otto anni fa, ne fanno parte «persone con o senza disabilità, quindi con qualsiasi tipo di abilità» sottolinea Massimo Furegon, giocatore con diversi incarichi nell’associazione omonima: «Il nostro non è tanto uno sport modificato sul giocatore, ma è soprattutto l’atleta, con o senza disabilità, che si adatta con le proprie capacità». Nella squadra sono presenti i facilitatori, giocatori normodotati che aiutano chi ha difficoltà per poter consentirgli di giocare: «Si cerca di coinvolgere tutti, ognuno con la sua disabilità: per esempio abbiamo persone con problemi di vista, di udito, ipovedenti o con il disturbo dello spettro autistico. Ci sono disfunzioni fisiche per cui fanno fatica a muoversi. In quei casi l’azione di gioco viene tarata sulle abilità specifiche di quell’atleta in quel momento». Del gruppo fanno parte oltre 30 persone che si trovano per gli allenamenti, tornei ed esibizioni. L’età va dai 17 ai 60 anni, maschi e femmine. Ci sono ex giocatori di rugby o altri che si sono approcciati partendo dall’inizio. Racconta Massimo che «siamo come una famiglia, ci si dà una mano. La disabilità passa in secondo piano, si è una squadra di rugby, nient’altro». Il volontario ricorda che sui loro campi sono passati ragazzi autistici, con difficoltà a essere toccati. «Spesso abbiamo sentito dire dai loro genitori “non ce la farà a giocare”. Invece hanno raggiunto risultati incredibili. È stato per noi un grandissimo traguardo». È bello ricordare che nel mixed ability rugby, per alcuni giocatori, il placcaggio è un abbraccio. Per Mattia Ramina, trentaquattrenne di Piazzola sul Brenta, lo sport è una parte importante della sua vita. Gli esordi da giovanissimo nell’hockey su prato, fino a raggiungere la serie B. A 20 anni la malattia: un tumore osseo molto aggressivo che lo costringe alla sedia a rotelle. «Ho dovuto accettare la realtà dei fatti». A 27 anni approda all’hockey in carrozzina «innamorandomene sin da subito. Potevo fare il mio sport preferito, semplicemente trasformato in hockey in carrozzina elettrica, chiamato powerchair hockey». Mattia ha giocato per diversi anni nel Coco Loco Padova, «togliendomi tantissime soddisfazioni». Poi la chiamata nella nazionale italiana nel 2019, «un sogno realizzato», avventura che continua tutt’oggi. «Nel 2022 con la maglia azzurra abbiamo disputato il Mondiale in Svizzera e fra poco andremo a giocare in Danimarca per l’Europeo». Oggi il giovane gioca in A1 con la Black Lions Venezia. «Penso che il powerchair hockey sia uno dei pochissimi sport al 100 per cento inclusivo perché abbraccia tanti tipi di disabilità. Ci sono persone che lo praticano con la distrofia muscolare, con amputazioni e altro. Non abbiamo ancora abbracciato le disabilità cognitive. Siamo tutti sulla sedia a rotelle elettrica, questa è la caratteristica che ci accomuna. Che tu sia forte o debole fisicamente la carrozzina va alla stessa velocità». Mattia aggiunge che lo sport è una parte «molto significativa della mia vita, mi dona felicità e tranquillità. Quando entro in palestra mi svuoto di tutti i pensieri che ho in quel momento, passo due ore a fare quello che mi piace senza pensare ad altro». Ed infine lo sportivo aggiunge che praticarlo gli dona tantissime emozioni, diverse l’una dall’altra, a volte di gioia, nelle vittorie, di tristezza, nelle sconfitte: «Le considero sempre un arricchimento dal punto di vista umano».
Chi lo dice che l’inclusione abbassa l’agonismo?
Per Eleonora Zorzi, ricercatrice all’Università di Padova in scienze dell’educazione primaria, «l’inclusione nello sport non necessariamente abbassa gli standard. Anche in questi contesti c’è una gara, una competizione, con la possibilità di un miglioramento delle abilità. L’idea di fondo, che bisogna contrastare, è che parlando di sport accessibile a tutti sia necessariamente un’attività semplificata. No: l’agonismo, la sfida e l’essere per tutti possono stare insieme». La ricercatrice, intervenuta sabato 5 ottobre al Palantenore nel convegno “Nuovi scenari di metainclusività”, promosso da Apief&Lsm (Associazione dei docenti di educazione fisica e laureati in scienze motorie) aggiunge: «l’inclusione passa dal promuovere il benessere di tutti senza precludere la possibilità di dare il meglio da parte di ciascuno».
“Basta” una racchetta in mano e una possibilità
Alessandro Padovan gestisce il centro sportivo Sporteam di Maserà. È un tecnico specializzato nel tennis in carrozzina e intellettivo, con tutta la parte motoria e tecnica. Attualmente segue tre ragazzi in sedia a rotelle e una ragazza con la sindrome di Down. «Per me l’inclusione nello sport significa dare una racchetta e offrire la possibilità a chiunque di poter giocare a tennis. A volte facciamo i doppi misti dove c’è da una parte un giocatore in piedi e uno in sedia a rotelle, così nell’altra metà del campo. In questa situazione c’è veramente il massimo dell’inclusione in quanto ci si rende conto, per chi è normodotato, le difficoltà che vive una persona disabile. Si capisce la fortuna che si ha nell’essere in piedi e si intuisce la determinazione e la grinta che hanno i ragazzi in carrozzina nel fare la stessa cosa che fa chi è in posizione eretta».