La parola del buon vicinato. Ascoltiamoci per ascoltare
Durante il lockdown molti rumori si sono fermati, altri amplificati. A volte il silenzio è stato più assordante. Nel silenzio delle strade c’è stata l’occasione di ascoltare suoni e voci di chi ci è più vicino. Da casa tutto ha avuto un altro senso, per cui si son potute scoprire abitudini, più o meno apprezzabili, dei nostri vicini.
Certo il rumore non sempre è apprezzato, a volte le litigate del vicino possono infastidire, incuriosire ma anche preoccupare. Altre volte, però, il suono del vicino musicista accompagna le nostre letture o le chiacchierate tra balconi delle signore del palazzo di fronte danno spunti per ricette nuove.
In ogni caso il silenzio frastornante della pandemia ci ha permesso di ri-pensare all’ascolto, soprattutto nella relazione con gli altri, e in particolare col vicinato.
L’ascolto può avere una forma passiva, ovvero il sentire qualcosa, percepirlo ma in maniera distratta e più superficiale. Oppure può essere un ascolto attivo, per cui si presta attenzione a ciò che si sente, è un’azione attenta, riflessiva. Da qui si stabilisce una relazione tra due interlocutori ed è la base per una comunicazione efficace.
Saper comunicare, infatti, significa prima di tutto ascoltare l’altra persona, cosa pensa e cosa vuole comunicare, i suoi bisogni e punti di vista. Potremmo dire che l’ascolto è alla base dell’empatia, ovvero della capacità di riconoscere e comprendere lo stato d’animo dell’altro, il “mettersi nei panni dell’altro”.
Sappiamo bene, però, come l’ascolto sia associato a volte al “farsi gli affari degli altri”, soprattutto se si parla di vicini di casa. Non vuole essere certo questo l’incoraggiamento. Piuttosto, a partire della relazione con le persone con cui viviamo e quelle che vivono intorno a noi, potremmo sfruttare questo periodo casalingo per esercitarci in un ascolto attivo. Prestare attenzione a ciò che prima sentiamo e poi ascoltiamo vuol dire iniziare ad attivare relazioni, a capire non solo cosa fa il nostro vicino ma magari perché lo fa. Usiamo l’ascolto come pretesto di relazione e come eventuale strumento di prevenzione.
«Se solo avessi sentito qualcosa avrei potuto…»: così si possono evitare situazioni spiacevoli o peggio, drammatiche. Se pensiamo che la maggior parte delle violenze sulle donne avviene in contesti domestici, forse se prestassimo più attenzione a ciò che sentiamo potremmo creare una rete di ascolto che intercetta i segnali prima che diventino urla.
Ma come fare per sviluppare un buon ascolto? Ascoltiamo noi stessi in primis. L’ascolto non si limita a intercettare l’ambiente esterno, bensì passa prima dall’ascoltare i nostri bisogni e desideri, i nostri ritmi e le nostre mancanze. Solo con questo costante allenamento di attenzione a ciò che facciamo e viviamo possiamo poi ascoltare ciò e chi ci circonda con atteggiamento diverso.
Marta Gaboardi
collaboratrice della cattedra di psicologia di comunità dell’università di Padova