La “bandiera bianca” della comprensione. Sulle parole di Francesco, una corsa a non approfondire
Qual è la cosa più preoccupante del vespaio che si è alzato dopo che il papa avrebbe invitato l’Ucraina ad «alzare bandiera bianca» per mettere fine alla guerra che dura da due anni? Che papa Francesco inizi a parlare come Cirillo patriarca ortodosso della Chiesa russa, come insinua qualcuno su X (fu Twitter)? Che si stia alzando una nuova cortina di ferro ma che questa volta passi per il Vaticano, come riflettono altri questa volta su Facebook? Che in Vaticano ci sia un «problema di nome Francesco», come ha titolato Il Foglio di martedì scorso? Direi nulla di tutto questo. Lungi da noi voler prendere sottogamba la questione.
Le parole del papa hanno un grande valore anche oggi, in un mondo nel quale chi poi davvero segue il suo messaggio cala ogni giorno di numero. Il papa sa che ogni sua sillaba può essere estrapolata dal contesto, mal interpretata, letta secondo specifici interessi da parte di chi concorda o avversa. Tutti fatti che già abbiamo visto accadere in questi undici anni di magistero petrino di Jorge Mario Bergoglio. «Comunque questa è la peggior gaffe del pontificato, come se ne esce?», mi scriveva qualche giorno fa un amico e collega. Dunque: azzardare risposte è complesso, il rischio di essere parziali è enorme e non vale la pena aggiungere confusione a una situazione che di certo non brilla per chiarezza. Eppure – tanto per tornare alla questione con cui avevamo aperto – la cosa che più di altre ci preoccupa è la penetrazione della logica da social network (che prevede l’immediato schieramento con o contro, il bianco e il nero senza la possibilità di alcune sfumatura di colore, l’acceso o lo spento senza gradazioni di frequenza, l’1 o lo 0 come nel linguaggio binario dei chip) anche presso le istituzioni, le autorità, chi ha responsabilità politiche o sociali di ampia rilevanza. È proprio così. Non c’è stato approfondimento, richiesta di spiegazioni, l’idea di comprendere il contesto di un’affermazione apparsa dapprincipio straniante. È bastato il lancio di un’anticipazione di un’intervista perché dai canali ufficiali di Stati nazionali, organizzazioni sovranazionali e altri soggetti partisse la ridda di distinguo, fino a esternazioni francamente offensive nei confronti del papa. Eppure Francesco aveva parlato molte altre volte del coraggio necessario per arrivare alla pace, alla necessità che qualcuno decida di compiere un passo indietro, anziché continuare a spingere sulla retorica della guerra e della violenza. Dopo due anni ci sono due rischi fortissimi in questa situazione: il primo è l’assuefazione da parte di tutti, anche delle potenze mondiali e così i due popoli rischiano di essere abbandonati a se stessi in una spirale distruttiva senza senso. Il secondo è l’escalation, l’idea che altri popoli o stati entrino in quel vortice, e la situazione della Transnistria (regione russofona della Moldavia che guarda con favore a Mosca e a una possibile annessione) non fa pensare nulla di buono. Doveva intervenire sul Corriere della sera niente meno che il segretario di stato Pietro Parolin per spiegare che per fare la pace è ovvio essere in due. La famigerata espressione «bandiera bianca» il papa la riprende dalla domanda dell’intervistatore, mentre nel resto della corposa risposta al collega della Radiotelevisione della Svizzera Italiana, Lorenzo Buccelli, si concentra sul negoziato. Insomma, era tutto chiaro, come già sabato sera aveva spiegato la Sala stampa vaticana e, in un articolo del 10 marzo, anche Il Post, giornale online diretto da Luca Sofri. Che dire, appariva tutto chiaro. Nessuno aveva messo in questione che l’attacco fosse stato russo e che il popolo ucraino sia in trincea per difendersi, nessuno ha negato il diritto a difendersi. Solo che dopo 300 mila morti, con una quantità di città distrutte, un futuro al momento offuscato nella polvere che ogni esplosione alza e il tempo che consuma la tempra dei combattenti e il denaro per gli armamenti, a un certo punto ci vuole il coraggio di dire basta. Di farlo a Kiev, a Washington, a Bruxelles, a Parigi, Berlino, Roma e a New York, dove ha sede l’Onu. Perché aspettarselo da despoti sanguinari è utopia. Tutto questo non è arrendersi. È negoziare, appunto.