L’Iraq cristiana ferita dall’Isis
Il 10 giugno 2014 lo Stato islamico istituiva il califfato a Mosul, in Iraq: migliaia di cristiani furono costretti a scappare. Ancora oggi, in molti non sono rientrati. Padre Jalal Yako: «Permane l’instabilità, ma i cristiani in Iraq soffrono da decenni: dal 2003, con la caduta di Saddam Hussein, al 2014, i fedeli sono diminuiti da 1,5 milioni a 250 mila persone»
Adieci anni dall’avanzata dell’Isis nel nord dell’Iraq è ancora l’instabilità a fare da padrona nel Paese mediorientale e la situazione della popolazione civile, in particolare delle comunità cristiane, rimane decisamente a rischio. «Dopo un decennio, il bilancio per i cristiani iracheni è negativo. L’avanzata dell’Isis è stata il culmine del calvario subìto da questa comunità, ma anche da altre minoranze come gli Ezidi. Anche prima dell’Isis però la situazione era critica: dal 2003, con la caduta del regime di Saddam Hussein, al 2014 i cristiani in Iraq sono diminuiti da 1,5 milioni a 250 mila persone, e il calo continua a causa dell’instabilità e delle costanti minacce». A raccontarcelo è padre Jalal Yako, rogazionista originario di Qaraqosh, un passato nella parrocchia Buon Pastore all’Arcella, a Padova, oggi vice-parroco nella Diocesi di Assisi, e che tra il 2014 e il 2017 si trovava in missione tra i rifugiati iracheni nei campi profughi di Erbil. «In quegli anni sono stato profugo tra i profughi. Ricordo l’esodo dei cristiani dalla Piana di Ninive il 6 agosto 2014, sono stato tra gli ultimi a scappare dal mio paese, Qaraqosh, in cui abitavano sessantamila persone prima dell’avanzata dello Stato Islamico e che oggi conta appena 26 mila residenti. Per tre anni, fino alla sconfitta dell’Isis nel 2017, siamo rimasti lontani dalle nostre case e dalle nostre chiese, tanti cristiani hanno perso tutto e hanno conservato solo la loro fede». Il dopo-Isis per le comunità cristiane irachene è stato tutt’altro che una rinascita, circa metà dei rifugiati che sono espatriati, infatti, non ha fatto ritorno nelle loro città e nei loro villaggi: «Oggi i campi profughi dove abbiamo vissuto dal 2014 al 2017 non esistono più, tante persone che si erano rifugiate lì ora vivono all’estero, in Canada, Australia, America, dove spesso sono arrivati dopo essere transitati per Libano e Giordania – racconta padre Jalal – Qualcuno invece è rimasto a Erbil perché ha trovato lavoro, altri sono tornati a Qaraqosh e nella Piana di Ninive, questi ultimi però sono davvero pochissimi. I cristiani iracheni a oggi sono in larga parte una comunità in diaspora, eppure emigrare dall’Iraq adesso è più difficile, perché i Paesi che hanno accolto molti iracheni negli anni della guerra all’Isis hanno criteri più stringenti, non accettano più questi rifugiati. Però ci sono tanti modi per scappare, il primo è pagando. La gente vende tutto e va».
Oltre alla persistenza delle cellule Daesh (altro nome con cui è conosciuto l’Is) che minano la sicurezza dei civili con attentati, a spingere i cristiani a continuare ad andarsene o a non fare ritorno sono la situazione politica frammentata e le condizioni economiche difficili. L’Iraq è segnato dalla crescita dell’influenza di milizie che, dopo aver partecipato alla liberazione dall’Isis guidata dalla resistenza curda alleata con gli Stati Uniti d’America, hanno oggi l’obiettivo di guadagnare potere e occupare territori: «Queste milizie, alcune di esse filo-iraniane, hanno trovato la loro forza nella mancanza di lavoro e nella situazione di instabilità, condizioni a causa delle quali trovano molti giovani che si arruolano. La loro crescente influenza produce divisioni nella popolazione tra chi li supporta e chi è contro, ma in molti casi il reclutamento è forzato. Le comunità cristiane vengono minacciate e i beni dei rifugiati all’estero vengono espropriati. Allo stesso tempo queste forze paramilitari si infiltrano nella vita politica, piazzano i loro rappresentanti in posizioni chiave nelle istituzioni locali, in modo da poter manovrare la vita pubblica». Del resto, non è una novità nel complesso panorama politico iracheno il fatto che la frammentazione seguita all’invasione statunitense contro Saddam Hussein nel 2003 sconvolga la vita della popolazione. Come ricorda padre Jalal: «Ero in missione in quella regione dal 2012: già in quel periodo, prima dell’avanzata dell’Isis, le minacce per la popolazione civile erano enormi: c’erano già le cellule dello Stato Islamico ma anche altri gruppi fondamentalisti. La caduta di Saddam Hussein, infatti, ha aperto la strada alla proliferazione di molte organizzazioni fanatiche, che trovavano terreno fertile in una situazione completamente instabile. La nostra missione rogazionista è cominciata per aiutare i cristiani che erano diventati profughi scappando dalle minacce degli estremisti che già operavano in quel territorio prima dell’avanzata dell’Isis: fuggivano da attentati e autobombe. Sì, la situazione era tragica: già prima del 2014 celebrare messa a Mosul, per esempio, era un grosso rischio per la nostra sicurezza: cambiavamo in continuazione il percorso per raggiungere il luogo di culto e solo le persone che partecipavano sapevano l’orario».
L’arrivo nel 2014 dell’organizzazione terroristica capeggiata da Abu Bakr al-Baghdad ha rappresentato il culmine di minacce e di morte che ha costretto i fedeli a scappare. La situazione rimane ancora difficile tra povertà, futuro instabile e tanti altri problemi, tutti conseguenze delle numerose guerre vissute in Iraq e in Medio Oriente. A oggi in Iraq, sostiene padre Jalal Yako, chi comanda si disinteressa del popolo, si arricchisce rubando e non redistribuisce alla gente. Eppure, nonostante la situazione ancora molto critica a dieci anni dall’incubo del fanatismo islamista rappresentato dall’Isis, non mancano le iniziative di solidarietà, volte a dare speranza ai cristiani iracheni. Tra queste c’è il Ponte Assisi-Ur, l’iniziativa lanciata dopo la visita di papa Francesco in Iraq nel 2021 e che vede anche la partecipazione di padre Jalal Yako. Nell’ambito di questo progetto vengono organizzati pellegrinaggi nella città irachena di Ur per mantenere viva la speranza di pace attraverso il dialogo tra comunità di fedeli. Non a caso quest’anno il pellegrinaggio vedrà una celebrazione in collegamento con Assisi il prossimo 26 ottobre, in ricordo dell’Incontro interreligioso nella città di san Francesco voluto nel 1986 da papa Giovanni Paolo II.
Barca naufragata in Calabria, c’erano iracheni
Il 20 giugno si celebra la Giornata mondiale del rifugiato, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. In Veneto, con varie forme di accoglienza, vivono 253 iracheni, un numero in costante crescita: erano 121 nel 2017. E c’erano anche cittadini iracheni sulla barca a vela naufragata lunedì 17 giugno, al largo della Calabria e salpata dalla Turchia: in cinquanta risultano dispersi nel Mediterraneo.