Israeliane e palestinesi a Malosco. Un ponte per la pace

Le tragedie che stanno vivendo le popolazioni israeliana e palestinese prefigurano un destino senza speranza

Israeliane e palestinesi a Malosco. Un ponte per la pace

La pace possibile
Le tragedie che stanno vivendo le popolazioni israeliana e palestinese prefigurano un destino senza speranza. Un gruppo di donne assistenti sociali di quei territori, che da anni aiuta bambini e genitori ad affrontare povertà, esclusioni e discriminazioni si è chiesto come riorientare l’azione professionale. La guerra ha messo tutti contro tutti, soffocando la speranza. In un Master in Servizio sociale all’università ebraica di Gerusalemme hanno preso atto che non si può immaginare il futuro, quando la guerra lo rende impossibile. È nata così l’idea di provare a immaginarlo a Malosco in alta Val di Non, un luogo di studio e ricerca dove da 60 anni la Fondazione Zancan accoglie studiosi e operatori, anche da altri Paesi, nei suoi laboratori di idee. Dialogare a Malosco significa farlo insieme, componendo criticità, ideazioni e chiedendosi da che parte stare: “Contro o Dentro?”. Lo ha fatto anche il gruppo di assistenti sociali arrivati da Gerusalemme, composto da donne ebree e arabe, che hanno dialogato con ricercatori di alcune università italiane e colleghe assistenti sociali impegnate nella “convivenza tra diversi” in Alto Adige e in Trentino. Lo sguardo ha così potuto distanziarsi dalle tragedie quotidiane per confrontarsi sul come aiutare nei contesti conflittuali, multietnici e multiculturali. La professoressa che ha guidato il gruppo poteva contare sulle sue ricerche in diversi Paesi e su una lunga collaborazione con la Fondazione Zancan. In un’impresa che sembrava impossibile, ha prevalso il desiderio di pace, non solo la pace che tutti aspettano dalle negoziazioni internazionali, ma la pace quotidiana tra persone, famiglie, comunità locali. Per questo l’idea di un servizio sociale «ponte di pace tra persone e comunità» ha appassionato il dialogo per aiutare famiglie disperate, con bambini e adolescenti che in futuro potranno implementare nuovi modi di essere società, nei territori violentati dalla guerra.

Cosa si sono detti gli assistenti sociali
Hanno convenuto che il bene può emergere dall’azione professionale, anche quando viene messa a dura prova, con risultati che potranno rivelarsi utili anche per altre terre afflitte da tragedie umane dimenticate. Hanno convenuto che, per rafforzare le relazioni di aiuto, è necessario bilanciare il potere di chi aiuta e la debolezza di chi è aiutato, valorizzando tutte le capacità. Non è facile essere e fare così quando la forza di chi aiuta non cura la disperazione di chi è aiutato. È emerso anche il rischio professionale di venire scoraggiati da istituzioni violente, che non riconoscono la necessaria libertà professionale per dare aiuti efficaci. I circoli viziosi delle organizzazioni malate spesso costringono i professionisti a seguire procedure che non garantiscono l’aiuto autentico. Il compito etico è dare il meglio anche quando prevale il peggio.

Comporre diversità e speranza
L’esperienza seminariale ha consentito di dialogare con assistenti sociali italiane che affrontano, in condizioni meno drammatiche, problemi analoghi di multicittadinanza dove la tutela dei più piccoli rappresenta il livello di capacità necessario per evitare sofferenze evitabili, credendo nell’impossibile che diventa possibile. Il fatto di poter essere e fare così aiuta chi lavora nelle frontiere esistenziali a non arrendersi alla disperazione. Il seminario ha incoraggiato a proseguire questa ricerca. Le assistenti sociali arrivate da Israele sapevano di non essere benvenute nelle università e nei centri di ricerca europei. Ma sapevano che il nome “università” significa, da sempre, confronto tra saperi, scienze, professioni per promuovere la conoscenza sui diritti e doveri umani e sociali. Il seminario ha interpretato questi principi con l’umiltà necessaria per costruire “ponti di pace” tra assistenti sociali di Paesi diversi, potendo contare su apporti originali di ogni partecipante, parlando liberamente in chiave etica, professionale, politica... e da prospettive molto personali. Sono tornate a casa ringraziando per il sostegno ricevuto nel cercare soluzioni di aiuto professionale in contesti molto difficili. Hanno infine convenuto che la scelta di distanziarsi temporaneamente dall’enorme sofferenza quotidiana, non in un’aula ma in una casa accogliente, ha reso più facile la fatica di comporre esperienze e culture professionali. Ai loro occhi Malosco è sembrato un microcosmo di reciprocità, dove anche Paolo, il cuoco, ha fatto la sua parte preparando cibi compatibili con le culture e le abitudini alimentari di ogni partecipante, rendendo più amichevole e fraterno lo scambio umano e professionale.

Tiziano Vecchiato
Presidente della Fondazione Emanuela Zancan

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