Il trumpismo dilaga nei social network che tolgono le protezioni anti fake news. La libertà ha un prezzo

Dopo X anche Facebook e Instagram eliminano le protezioni anti fake news in nome della libertà d’espressione. Il “trumpismo” dilaga. Ne parliamo con due esperti, don Luca Peyron (Torino) e Giovanni Tridente

Il trumpismo dilaga nei social network che tolgono le protezioni anti fake news. La libertà ha un prezzo

La storia del rapporto – non sempre specchiato per dirla con un eufemismo – tra social media e politica passa tra due post pubblicati esattamente a quattro anni di distanza l’uno dall’altro nella stessa pagina: quella del fondatore di Facebook Mark Zuckerberg. Il primo post, datato 7 gennaio 2021, arriva all’indomani del tentato colpo di stato a Capitol Hill, con l’invasione del Congresso americano a Washington. «Negli ultimi anni – scriveva – abbiamo permesso al presidente Trump di usare la nostra piattaforma secondo le nostre regole, a volte rimuovendo contenuti o etichettando i suoi post quando violavano le nostre policy. Ora il contesto è fondamentalmente differente», e ne annunciava il blocco. Il secondo post è del 7 gennaio 2025, all’indomani della – questa volta pacifica – certificazione dei risultati elettorali che vedranno Trump reinsediarsi alla Casa Bianca lunedì 20 gennaio. Si tratta di un video in cui Zuckerberg bacia la pantofola del trumpismo e si accoda alla filosofia del patrono di X fu Twitter Elon Musk, secondo il quale la libertà di espressione è un valore assoluto, anche a costo di ammettere hate speech (linguaggio d’odio), fake news (propaganda). Zuckerberg ha annunciato non solo che licenzierà i fact-checkers indipendenti (accusati di partigianeria politica), ma il loro rimpiazzo con un sistema di “note della comunità”, riferendosi espressamente a quelle implementate su X. In coda lo spostamento del team di moderazione per gli Stati Uniti dalla California democratica al Texas repubblicano e una promessa di lavorare con Trump per imporre ai governi in tutto il mondo la stessa libertà di espressione, scagliandosi anche contro le recenti regolamentazioni volute dall’Unione Europea a tutela dei cittadini. Di salto «sul carro del vincitore» scrive Gigio Rancilio su Avvenire. Se a novembre padre Paolo Benanti pubblicava Il crollo di Babele. Che fare dopo la fine del sogno di Internet?, ora sono le macerie stesse di quel sogno ad andare a fuoco. Ma già da oltre un decennio si parla dei pericoli del “feudalesimo digitale”, un cambio di paradigma rispetto al web decentrato delle origini e delle utopie degli anni Novanta, che vede pochi e potentissimi operatori privati gestire un potere economico – e anche politico – più grande persino degli Stati e delle comunità internazionali, rinunciare apertamente a ogni responsabilità sociale delle loro piattaforme, accettandone invece i guadagni e le influenze.
Don Luca Peyron, fondatore del Servizio per l’apostolato digitale dell’Arcidiocesi di Torino, non è sorpreso: «Il digitale è uno strumento di potere e va a braccetto con il potere». L’annuncio di Zuckerberg non è che l’ennesima dimostrazione di come i colossi tecnologici abbiano assunto una posizione dominante pressoché assoluta, grazie a scelte strategiche e geopolitiche che li hanno resi indispensabili. Tuttavia, don Peyron sottolinea una realtà ancora più inquietante: «Il re è talmente sicuro di sé da non avere più paura di dire di essere nudo». La convinzione che non ci siano alternative a queste piattaforme rischia di trasformarsi in una forma di sudditanza collettiva. Giovanni Tridente, docente alla Pontificia Università della Santa Croce, concorda sul fatto che il problema principale non sia la tecnologia in sé, ma l’impreparazione degli utenti. «Da quando esistono i social, ci siamo concentrati sui rischi e sui problemi, ma non ci siamo occupati di educare all’uso consapevole di questi strumenti». Questa carenza educativa, unita alla velocità con cui le piattaforme evolvono, ha creato un divario cognitivo che amplifica le disuguaglianze: da un lato, chi utilizza il digitale per crescere e innovare; dall’altro, chi rimane intrappolato in un flusso costante di contenuti superficiali. Secondo don Peyron, la chiave per uscire da questo circolo vizioso è riprendere in mano il concetto di responsabilità. «La libertà ha un prezzo. I nostri nonni lo sapevano bene, perché per ottenerla hanno sacrificato la vita. Oggi, invece, pretendiamo che sia gratis». Questa illusione di gratuità — alimentata da modelli di business che monetizzano i dati degli utenti — non solo mette a rischio la nostra autonomia, ma ci rende complici di un sistema che privilegia il profitto rispetto al bene comune. Tridente invita a non farsi distrarre dalle polemiche di facciata. «Il fine di Zuckerberg non è la libertà, ma il profitto. La storia delle sue aziende dimostra che cavalca qualunque filone sia economicamente vantaggioso». Questo non significa, però, arrendersi al pessimismo. Al contrario, Tridente propone un approccio costruttivo: «Dobbiamo alfabetizzarci rispetto a questi strumenti, sviluppando anticorpi educativi e comunità in cui discutere delle loro implicazioni. Non possiamo aspettarci che siano le piattaforme a risolvere i problemi che loro stesse hanno creato». Contro il feudalesimo digitale, conclude don Peyron, «abbiamo il dovere di mostrare ai giovani che altre strade sono possibili».

In un panorama a tinte fosche è possibile dare un segnale anche come cristiani

A ovest Zuckerberg e Musk alla corte di Trump. A est Tik Tok, i suoi algoritmi e il legame con Pechino. Al centro l’Europa, senza “campioni” digitali, senza Internet satellitare (per ora), ma con i suoi regolamenti per la protezione degli utenti che le Big Tech vorrebbero abbattere. All’uscita di Zuckerberg un portavoce della Commissione Europea ha ricordato che «la libertà di espressione è al centro del Digital Services Act (Dsa)», regolamento che contrasta i contenuti illegali. «Nessuna disposizione del Dsa obbliga gli intermediari online a rimuovere i contenuti leciti», precisa Bruxelles, ma è ovvio che il vero scontro sarà sui segreti degli algoritmi, in grado di “spingere” contenuti graditi e “nascondere” quelli sgraditi ai loro padroni e alle loro priorità. Sarà insomma più difficile contrastare forme di interventi per manovrare l’opinione pubblica, come quelli – denunciati dalla Corte Costituzionale rumena – che hanno fatto vincere il primo turno delle presidenziali – poi annullate – a una “sorpresa” filorussa, che hanno fatto anche tanto ricorso alla potenza dell’intelligenza artificiale? Per Giovanni Tridente la strada rimane quella della formazione: «L’Intelligenza artificiale è un’ottima opportunità per ridurre le disuguaglianze, non per aumentarle, se messa a disposizione di tutte le società, non solo di quelle avanzate. Ma si realizza solo anzitutto con la consapevolezza e poi con l’alfabetizzazione». Per don Luca Peyron, poi, i cristiani possono dare testimonianza di unità in un mondo frantumato: «Soprattutto su questi temi dobbiamo essere sempre più in comunione. Abbiamo bisogno della diversità dei carismi: è il segnale forte che ci sta dando papa Francesco. La parola sinodalità significa camminare insieme».

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