Il fumo di Auschwitz sta salendo ancora
Ad Auschwitz c’era la neve, e il fumo saliva lento…», cantava Guccini nella famosa “Canzone del bambino nel vento”. Il fumo sale ancora ed è ben visibile, come dimostrano le recenti polemiche sull’infelice dichiarazione in difesa della razza bianca di Attilio Fontana, candidato del centrodestra alla presidenza della Lombardia.
Ma quel fumo va molto al di là di una pur legittima propaganda elettorale. È una questione simbolo, che si può e si deve interpretare a molti livelli, storico, politico, ideologico, e perché no?, anche teologico. Non è una questione contingente, ma fondamentale, che interpella tutti, anche noi cristiani. La teologia non la può ignorare.
Non fosse altro per il fatto che la Giornata della memoria ripropone la grande, terribile domanda su Dio: se c’è un Dio, perché sale il fumo di Auschwitz? Se lo chiedevano gli ebrei – abituati a molte domande e poche risposte – entrando nelle camere a gas. Continuano a chiederselo i cristiani alla ricerca di una risposta impossibile. Non entro qui in un dibattito difficile sul problema del male. Ricordo solo la risposta di un ebreo, Hans Jonas (Il concetto di Dio dopo Auschwitz), diventato famoso del secondo Novecento per le sue importanti riflessioni etiche sul principio della responsabilità.
Cosa dice Hans Jonas? Dice che se Dio non ha impedito Auschwitz vuol dire che non poteva. Addio dunque alla categoria teologica dell’onnipotenza di Dio, che sarebbe più una categoria greca che ebraico-cristiana.
La disputa teologica non si ferma qui, va oltre, investe anche il significato cristiano della croce che sormonta il campo di Auschwitz e l’annesso convento delle suore carmelitane, insediate fra le mura del lager per pregare in silenzio e oggetto a suo tempo di controversie e forti opposizioni.
La domanda è: Auschwitz può essere il luogo della croce?
La risposta non è così scontata e ovvia come potrebbe sembrare. Vi è chi risponde affermativamente e fa della croce un simbolo umano, nel quale tutti, compresi gli ebrei, si possono ritrovare.
È una risposta che fa della croce il simbolo di una sofferenza universale che non va repressa o sublimata, ma vissuta e riflessa, perché solo così acquista un senso e viene in qualche modo riscattata. Una posizione di tutto rispetto, condivisa da molti, ma non da tutti per diversi motivi.
Ne ricordo due. Il primo riguarda proprio gli ebrei, per i quali purtroppo la croce non può essere segno di salvezza. Non rimanda a un sereno e sensato soffrire, semmai a tante sofferenze e pogrom che gli ebrei hanno dovuto subire lungo i secoli in tanti paesi cristiani. Un secondo motivo, più generale, solleva un’altra domanda: è giusto che la croce rappresenti tutti, cristiani e non cristiani, credenti e non credenti?
Secondo molti questa pretesa corrisponde a una certa sensibilità cristiana, soprattutto cattolica, che tende a identificare il cristianesimo con i “valori” sani e positivi dell’umanità: un cristianesimo per tutti.
Non importa se poi ravviva e alimenta una certa tendenza all’assimilazione, alla rivendicazione di una specie di primato culturale e religioso del cristianesimo sulle altre religioni.
Molti rispondono: e che male c’è se in quanto cristiani siamo in grado di aiutare a trovare nella sofferenza un po’ di serenità o se uno sguardo alla croce di Gesù è in grado di richiamare valori umani quali la nonviolenza, l’amore, il perdono?
La disputa su Auschwitz, come si può constatare, è anche disputa tra due teologie cristiane: una più antropologica, umanista, adatta a tutti; l’altra più attenta e fedele all’idea di un cristianesimo come piccolo gregge che non ingloba, non avanza pretese di primogenitura, ma sostiene, illumina, accompagna, nel faticoso cammino della vita.