Fine vita. Il senso di essere persona, oggi. Al centro la dignità umana
Una sfida interdisciplinare tra filosofia, etica e neuroscienze con al centro la dignità umana da rispettare, andando oltre le sole funzioni mentali come coscienza e intelligenza
Che cosa significa essere persona, oggi, in un’epoca nella quale la tecnologia ha raggiunto limiti impensabili e le sensibilità sono fluide come il pensiero? Fino a quando un essere umano ha un valore? Sono alcune delle questioni indagate nell’ultimo lavoro di Federico Zilio, Persone oltre la mente. Neuroetica dei disordini della coscienza, recentemente edito da Orthotes. Zilio, ricercatore e docente nel dipartimento di filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata (Fisppa) dell’Università di Padova, collabora con l’unità di ricerca Mind, Brain Imaging and Neuroethics dell’Università di Ottawa, diretta dal prof. Georg Northoff ed è membro del Comitato etico per la cura e la buona assistenza della persona presso l’Opsa di Sarmeola.
Prof. Zilio, perché è importante chiedersi oggi che cosa definisce una persona?
«Chiedersi cosa significa essere una persona è una questione antica ma sempre attuale. Nel quotidiano, usiamo il termine “persona” automaticamente, ma in situazioni complesse il concetto diventa più sfaccettato. Negli ultimi decenni, questo termine è diventato centrale nei dibattiti bioetici, specialmente riguardo alle questioni di inizio e fine vita, in quanto indice di valore morale e dignità. Riflettere su cosa significa essere una persona resta fondamentale per le nostre società; infatti, come diceva il filosofo Paul Ricoeur, il concetto di persona è ancora il termine più adeguato per sostenere lotte giuridiche, politiche, economiche e sociali, e io aggiungerei anche bioetiche e neuroetiche».
Può essere pericoloso definire cosa è persona e cosa non lo è? Non c’è il rischio di arrivare a stabilire che ci sono vite “non degne di essere vissute”?
«Sì, c’è questo rischio. Storicamente, esistono due principali visioni di “persona”: una classica, basata sull’idea di individuo caratterizzato da intrinseca dignità, e una moderna, focalizzata su funzioni mentali come intelligenza e consapevolezza di sé. La visione moderna ha dominato il dibattito bioetico recente, individuando capacità ritenute necessarie per essere considerati persone: la coscienza, le capacità cognitive e comunicative, il senso di sé, ecc. Questo approccio rischia di escludere dai diritti morali diverse categorie come gli individui con disabilità mentali, con disordini della coscienza, i neonati e così via. Nel mio libro analizzo criticamente questa visione restrittiva e propongo un’idea più inclusiva di persona, che rispetti la dignità umana in tutte le sue condizioni, evitando così il pericolo di stabilire quali vite siano “degne di essere vissute”».
Perché al centro della sua riflessione ci sono le persone con disordini della coscienza?
«Dal 2018 ho il privilegio di collaborare con il prof. Georg Northoff (Università di Ottawa, Canada), il quale mi ha insegnato come analizzare i dati elettroencefalografici (Eeg) e mi ha spronato ad approfondire i disordini della coscienza, che rappresentano un punto di convergenza tra filosofia, etica e neuroscienze. Infatti, studiare pazienti in stato di coma, vegetativo o di minima coscienza ci porta inevitabilmente a confrontarci con i limiti della nostra comprensione della coscienza umana; inoltre, ci spinge a ripensare concetti fondamentali come persona, cura e dignità. Sono convinto che la filosofia debba cercare un confronto con altre discipline, e le neuroscienze sono oggi particolarmente rilevanti sia a livello scientifico che sociale».
Qual è il contributo del suo testo in merito al dibattito sul fine vita?
«I disordini della coscienza sollevano questioni complesse sulla natura della persona e su come le nostre valutazioni della coscienza influenzano le decisioni etiche e cliniche. Nel mio lavoro riconosco la vulnerabilità di questi pazienti e il rischio di atteggiamenti deumanizzanti nei loro confronti (“non è più una persona, è solo un corpo”), ma sostengo che il rispetto della loro dignità non implichi necessariamente il prolungamento della vita a ogni costo. In alcuni casi, dopo un’attenta valutazione clinica, la decisione di permettere al paziente di morire (e non di indurne la morte) potrebbe essere moralmente giustificata, non per sminuire il valore della vita, ma per evitare l’impiego di trattamenti sproporzionati e clinicamente inappropriati. Questa prospettiva prende le distanze sia dall’approccio vitalista, che sostiene l’assoluta indisponibilità della vita, sia da posizioni funzionaliste che potrebbero portare all’abbandono terapeutico».
Nell’introduzione si fa riferimento alla vicenda di suo padre, al quale peraltro il libro è dedicato. Quanto ha pesato l’esperienza personale nel suo approfondimento?
«L’esperienza con mio padre, affetto da Sla, ha avuto un impatto significativo sul mio lavoro, sebbene indirettamente. Osservando la sua condizione, mi sono trovato a riflettere su questioni fondamentali che sono al centro di questo libro: come definiamo una persona quando perde certe capacità, fisiche o mentali? In che modo la nostra percezione dell’identità di un individuo cambia in particolari situazioni cliniche? Sebbene il caso di mio padre fosse diverso dai disordini della coscienza trattati in questo volume, questa esperienza personale ha alimentato il mio interesse per casi come quelli dei pazienti in stato vegetativo, nei quali la mancanza di responsività consapevole solleva questioni etiche, filosofiche e neuroscientifiche profonde e cogenti».