Dal fondo del pozzo. Giornalismo e guerre: il racconto e oltre il racconto
“Il buon giornalismo” non è quello del sentito dire, chiuso in redazione, ma è quello che si tuffa nel pozzo per incontrare le vittime innocenti e raccontarle
“Che cos’è la vita di un giornalista? Sono i frammenti delle vite che ha incrociato, amato, accompagnato per un lembo del cammino e poi raccontato trasformandoli e facendoli rivivere in parole”. Con una differenza rispetto a uno scrittore per i quali “quelle creature sono invenzioni, sono personaggi” mentre nel racconto di un giornalista “parole, gesti, volti sodi, loquaci, tristi o lieti, sono veri come quando li aveva davanti a sé”. È Domenico Quirico a comporre questo ritratto per ricordare Ettore Mo, “inviato speciale” del Corriere della Sera.
Ettore Mo è morto a 91 anni lo scorso 10 ottobre e il ricordo di Quirico si collega al pozzo oscuro delle guerre, delle offese, delle ingiustizie. Un’oscurità circondata spesso da indifferenza, assuefazione, emotività.
“I sentimenti che ti accompagnano quando ti inoltri in queste periferie sono quasi sempre di angoscia, sgomento, talvolta di raccapriccio…” scriveva Ettore Mo in “I dimenticati” il libro che raccoglie diciannove suoi reportage. Immancabilmente si apre una galleria di volti di giornaliste e giornalisti consapevoli che il racconto delle tragedie professionalmente vissute in prima persona va oltre sé stesso e diventa un insistente bussare alla porta della coscienza dei potenti e dell’opinione pubblica. E questo perché il racconto giornalistico nasce dall’incrociarsi degli sguardi degli innocenti con quelli dei testimoni, nasce dall’incrociarsi del pianto disperato con le parole e le immagini di un servizio. Ma è lo stesso sguardo che dal fondo del pozzo cerca di alzarsi verso l’alto.
Ecco allora Ryszard Kapuscinski reporter di origine polacca (1932 – 2007) impegnato su molti fronti di guerra e di sfruttamento a scrivere nel libro “L’altro” che “L’esperienza di tanti anni trascorsi in mezzo agli altri in paesi lontani mi insegna che la benevolenza nei loro confronti è l’unico atteggiamento capace di far vibrare le corde dell’umanità”. Per uscire dal pozzo occorre, nonostante il male incontrato, credere nel dialogo e riprendere la via dell’incontro.
Un percorso impossibile senza il risveglio della coscienza ed è Francesca Mannocchi, giornalista oggi su diversi terreni di sofferenza ad affermare che: “mostrare la violenza e la guerra oggi ha senso solo se indaghiamo e facciamo domande scomode e sconvolgenti sul perché accadono questi eventi: non fermarsi alla reazione emotiva, ma usare la mente per riflettere, per porci degli interrogativi sulle cause e sulle responsabilità dei conflitti”.
Il giornalismo, “il buon giornalismo” auspicato da Quirico, non è quello del sentito dire, chiuso in redazione, ma è quello che si tuffa nel pozzo per incontrare le vittime innocenti e raccontarle. E in questo racconto c’è la denuncia degli autori del male e degli indifferenti.