Crisi demografica. Stacchiamoci dall’idea di quel mondo perduto. Parla Gianpiero Dalla Zuanna

«Noi continuiamo a pensare a una società che non c’è più. Invece il cambiamento del paradigma demografico ci obbliga a pensare a una società nuova. Molto più flessibile, in cui le età contano meno. In cui contano di più le possibilità effettive, le disponibilità delle persone. Dobbiamo costruire, un po’ alla volta, un mondo diverso da quello che ci ricordavamo».

Crisi demografica. Stacchiamoci dall’idea di quel mondo perduto. Parla Gianpiero Dalla Zuanna

La riflessione è del prof. Gianpiero Dalla Zuanna, docente di demografia dell’Università di Padova, che nei giorni scorsi, nel corso del convegno “Siamo troppi o troppo pochi? Le sfide della demografia in Italia e in Veneto”, svoltosi ad Abano Terme, ha presentato una serie di dati che suscitano numerosi interrogativi.

Dalla Zuanna, per inquadrare la questione partiamo da alcuni numeri significativi...
«Nei prossimi vent’anni, se non ci saranno migrazioni, il numero di persone in età di lavoro, cioè dai 20 ai 64 anni, calerà in Veneto di 700 mila unità, ossia in media 35 mila persone in meno all’anno. Perché accadrà questo? Perché compiranno i 65 anni i figli del baby boom, cioè quelli nati negli anni compresi fra il 1960 e il 1979, mentre compiranno vent’anni i ragazzi nati in questa prima fetta del ventunesimo secolo, ovvero i ragazzi della generazione Z».

Però non ci sarà un ricambio qualitativo automatico tra chi andrà in pensione e chi si presenterà sul mercato del lavoro.
«In effetti si tratta di due fattispecie assai diverse. Di quelli che vanno in pensione, metà sono ancora operai o hanno al massimo la licenza media. Mentre i giovani che si affacciano al mercato del lavoro per l’80 per cento sono diplomati o laureati. Quindi è evidente che non abbiamo, in particolare, una sostituzione delle persone con basso titolo di studio. Questo è il quadro demografico, che risulta abbastanza diverso da quello degli anni precedenti».

Quali sono le novità più significative?
«Negli anni precedenti non avevamo mai deficit così grossi. Si tratta proprio di un unicum, dovuto alla coincidenza dell’uscita dal mercato del lavoro dei cosiddetti boomers e dell’arrivo della cosiddetta generazione Z, che sono molti di meno. Questo fenomeno non era così netto negli anni passati, dove pure abbiamo avuto movimenti migratori molto consistenti. Preciso che stiamo parlando di residenti in Italia, quindi una fetta del totale è composta anche da persone con cittadinanza straniera».

Come si può allora affrontare il problema dell’equilibrio demografico?
«Il tipo di welfare che abbiamo in Italia opera molto con l’intermediazione fiscale per garantire la sanità, le pensioni e l’istruzione. Se non abbiamo un numero sufficiente di persone che lavorano rispetto a quelli che non lavorano, è evidente che abbiamo un problema e bisogna capire come risolverlo. Cioè come possiamo permettere una vita decente alle persone che non lavorano più, il che non significa soltanto pagare le pensioni, ma anche garantire la sanità pubblica, che costa 120 miliardi di euro all’anno. E nel contempo come facciamo ad avere i soldi per dare istruzione a quelli che non lavorano ancora».

Lei fa questo ragionamento ipotizzando uno stop delle migrazioni verso il Veneto?
«Sì, sto ragionando come se da domani il Veneto fosse blindato, fermando sia le migrazioni dall’estero che sia quelle interne. Ma non è un’analisi che riguarda solo noi, il ragionamento vale anche per l’Austria. Se facciamo gli stessi calcoli, si vede che quest’anno in Austria hanno compiuto 65 anni 200 mila persone e 100 mila persone ne hanno compiuti 20. Gli austriaci hanno esattamente i nostri problemi, o forse sono addirittura accentuati: non avranno la gente che serve le birre, o che taglia l’erba negli alpeggi, o che munge le loro belle mucche. Voglio vedere se con l’intelligenza artificiale serviranno le birre o accudiranno gli anziani. Sono tutta una serie di lavori, e sono tanti – in Veneto rappresentano più o meno il 20 per cento delle occupazioni – che l’Istat definisce a basso contenuto di expertise (competenza, ndr) cioè tu impari a farli in una settimana e poi continui. La nostra società è basata anche su questi lavori. Chi è che spenna i polli? Chi è che lavora nei macelli? Questa è la realtà, poi il resto sono tutte fantasie».

Ma i dati che lei ha citato come si abbinano con lo sviluppo dell’intelligenza artificiale?
«Ho letto di recente un articolo in cui si sostiene che la riduzione del numero delle persone in età lavorativa è una benedizione perché con l’intelligenza artificiale avremo una diminuzione di lavori e quindi riusciremo e ad aumentare in modo importante la produttività. Questo però negli ultimi 200 anni non è mai successo: cioè, è vero che è aumentata la produttività in tanti lavori, ma sono aumentati anche i nuovi lavori. Oggi si creano di continuo lavori nuovi che un tempo non ci saremmo immaginati. Quarant’anni fa quante palestre di fitness c’erano? Trent’anni fa non esisteva il fenomeno delle badanti. Adesso in Italia ne abbiamo uno/due milioni, a seconda delle stime. Nelle case di riposo devono chiudere servizi perché non trovano infermieri. Possiamo illuderci di ricostruire il mondo perduto, però il mondo in realtà è così».

Allora come possiamo trovare nuove fasce di lavoratori?
«Nelle nostre società ci sono dei giacimenti di lavoro retribuito, che sono poco utilizzati. In Italia la quota di donne che lavorano è molto più bassa rispetto alla media europea. Anche le quote di giovani e di anziani che lavorano sono più basse, quindi un modo per supplire al calo che abbiamo descritto può essere quella di mettere in campo azioni che incoraggino sia le donne, sia gli anziani che i giovani, magari part-time. Per esempio, i dati ci dicono che c’è un incremento di anziani che lavorano. Nel Nord Italia il Pil prodotto dagli anziani è passato, in sei-sette anni, da sei a dieci miliardi di euro”.

Ma quando la premier Giorgia Meloni afferma che «non ci sono mai stati tanti occupati dai tempi di Garibaldi» ha ragione?
«Ha ragione perché guarda il tasso di disoccupazione e di occupazione. Però questi tassi non considerano la gente che non si mette sul mercato del lavoro. Le casalinghe, per esempio, non entrano nel conto. La società italiana, poi, è fortemente basata sugli scambi non monetari fra parenti, e non solo fra parenti. Per fare un riferimento all’ambito cattolico, se ci fossero in Italia più ragazzi che lavorano, non so quanti capi scout avremmo. Noi riusciamo ad avere un volontariato anche giovanile, perché di fatto ci sono famiglie che mantengono i giovani senza che i giovani debbano lavorare».

Il Parlamento come potrebbe intervenire?
«Si possono fare anche degli interventi legislativi. Mi risulta che una persona che è in pensione non possa lavorare oltre un determinato tempo, sennò gli tagliano un po’ l’emolumento. Questo è un modo di pensare trogloditico, legato all’idea che chi è in pensione e lavora, “ruba” lavoro ai giovani. Questo vale anche per il part-time: tante casalinghe farebbero volentieri un lavoretto se il part-time fosse più agile. Invece abbiamo un mercato del lavoro molto rigido: basta pensare alla difficoltà delle aziende di accettare lo smart working perché sembra che tu non puoi più controllare il tuo dipendente. Il problema grosso è che noi continuiamo a pensare a una società che non c’è più. Noi abbiamo il 60 per cento delle donne, in età da lavoro, che lavorano per il mercato. Ma in Paesi tipo la Germania e quelli del Nord Europa si arriva all’80-90 per cento. Certo, dobbiamo istituire dei servizi, dobbiamo mandare i bambini a casa da scuola non all’una ma alle quattro del pomeriggio. Ma non è che non possiamo riorganizzare le cose».

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