Carceri. Reni: “Le pene devono tendere alla rieducazione”. Il progetto “Il viaggio del prigioniero”
A colloquio con la presidente di Prison Fellowship Italia, realtà che nasce dall'esperienza statunitense della vasta organizzazione Prison Fellowship International, operante da oltre quarant’anni e attiva in quasi 140 sedi nazionali del mondo
Sovraffollamento, suicidi, caldo asfissiante, estate che non passa mai per chi è chiuso in cella. Di tutto questo parliamo con Marcella Reni, presidente di Prison Fellowship Italia, realtà che nasce dall’esperienza statunitense della vasta organizzazione Prison Fellowship International, operante da oltre quarant’anni e attiva in quasi 140 sedi nazionali del mondo. La missione di Pfi consiste sostanzialmente nel recupero dei detenuti e nell’evangelizzazione all’interno delle carceri, luogo degli ultimi per eccellenza. Scopo di Pfi è servire Cristo nelle carceri, prestando la propria attività in favore dei detenuti, ex detenuti, delle vittime e delle loro famiglie, oltre che creare percorsi di redenzione umana e spirituale nell’ottica della restituzione, del perdono, della fraternità umana. Pfi Italia ha avuto il suo atto costitutivo ufficiale a Rimini, in occasione della 33ª Conferenza nazionale animatori, quando Reni, allora direttore del Rinnovamento nello Spirito Santo, accolse il presidente mondiale Pfi Ronald W. Nikkel accettando l’incarico alla presidenza della neonata Associazione italiana su richiesta del RnS. Oggi Pfi è attivamente impegnata in progetti innovativi, come “Il viaggio del prigioniero”, per accompagnare chi vive la difficile prova della detenzione in un concreto percorso di riabilitazione umana e spirituale.
Quest’estate il tema delle carceri torna alla ribalta per i suicidi di detenute e detenute in Istituti penitenziari, che non può lasciarci indifferenti…
I detenuti di tutto il mondo sono tagliati fuori dalla società e abbandonati con i loro sentimenti di solitudine e disperazione. La carenza di personale e le altre criticità strutturali e organizzative, unite alla desertificazione delle estati negli Istituti di pena, rendono la situazione sempre più esplosiva.
Troppo spesso il carcere viene dimenticato e in questo periodo dell’anno la situazione diventa ancor più tragica.
Come ha avuto modo di ribadire anche il ministro di Giustizia “ogni suicidio è una sconfitta per lo Stato, per la giustizia e mia personale”. I suicidi in carcere si verificano 18 volte in più rispetto al mondo esterno e non possiamo continuare a pensare che il problema siano i detenuti. Il problema è, invece, il sistema carcere. La pena detentiva consiste nella privazione della libertà e non in altre “torture” che possono spingere anche al suicidio, come la mortificazione degli affetti.
È vero che chi ha sbagliato deve pagare, ma non smettiamo di ricordare che secondo la nostra Costituzione le pene devono tendere alla rieducazione e non si rieduca rispondendo al male con altrettanto male.
Rispondere al sovraffollamento e al disagio psichico è una priorità. Esiste, concretamente, un modo di prevenire o una soluzione definitiva?
A seguito della tragedia torinese, in cui due donne, a distanza di poche ore, hanno perso la vita in carcere, il ministro Nordio ha fatto due proposte: da una parte, il recupero di caserme dismesse per i condannati per reati minori, dall’altra, l’aumento delle telefonate settimanali garantite alle persone detenute. Pensiamo al tempo di pandemia: le chiamate concesse durante la fase “calda” del Covid hanno salvato il sistema dal disastro e sarebbe stato saggio non solo non toglierle, ma anzi addirittura potenziarle, infatti, abbiamo appurato che è stata una soluzione che ha funzionato. Invece, terminata l’epidemia si è fermato anche l’accesso a quelle telefonate in più. I detenuti hanno diritto a quattro chiamate al mese di non più di dieci minuti. Non è molto difficile, né c’è da fare molto: occorre semplicemente apportare una modifica al regolamento penitenziario. Più complicata, invece, è la questione delle caserme. Innanzitutto ci sarebbe la difficoltà pratica del trasferimento dei beni dalla Difesa alla Giustizia, poi la necessità di riadattarle, il reperimento del personale: ciò che, tuttavia, crea maggiori perplessità è l’efficacia del provvedimento. Il sovraffollamento penitenziario non è un accidente contingente. Da trent’anni, salvo momenti eccezionali, la popolazione detenuta è sempre e costantemente cresciuta e l’aumento della capacità ricettiva del sistema penitenziario da 36mila a 51mila posti detentivi non ha risolto il problema. Trovare altri posti cambierà la situazione?
Il nodo da sciogliere, infatti, è cosa vogliamo che sia il carcere. Ciò dovrebbe essere una extrema ratio, spesso invece è il ricettacolo degli ultimi. Se continuiamo ad identificare la pena con il carcere, se continuiamo ad inserire nuovi reati e pene più dure, i più poveri dovranno andare in galera. Se il Governo vuole mettere fine al sovraffollamento, dovrebbe avere il coraggio di porre limiti effettivi all’uso del carcere.
In carcere un ruolo importante lo gioca il volontariato. Ci può parlare del progetto “Il viaggio del prigioniero”, promosso da Pfi?
Quando annunciamo misericordia e perdono, collaboriamo perché altri ritrovino il senso del peccato e la responsabilità personale. Nella misura in cui ci poniamo nell’atteggiamento di offrire misericordia, ci accorgiamo che l’altro si interroga e si apre lo spazio per il riconoscimento della responsabilità personale.
Il progetto “Il viaggio del prigioniero” consiste nel presentare Cristo, Figlio di Dio e vero uomo, che ha patito ciò che ogni detenuto patisce: solitudine, sofferenza, angoscia, stigma sociale. E consiste nell’annunciare che in Gesù e attraverso Gesù tutte le sofferenze possono essere riparate e guarite, che non c’è ferita che non possa trovare accoglienza.
Il progetto si snoda in un percorso di otto settimane che parte da tre domande fondamentali: chi è? Perché è venuto? E quindi? “Il viaggio del prigioniero” ha dimostrato, nelle Nazioni nelle quali è stato realizzato, di poter realmente trasformare la vita dei detenuti, interiormente ed esteriormente, avvicinandoli al rapporto ristoratore con la persona di Gesù.
La stessa realtà di Prison d’intesa con il RnS, con il patrocinio del Ministero di Giustizia, da anni organizza per il Natale l’iniziativa “L’Altra Cucina… per un Pranzo d’Amore”. Quest’anno è attesa la decima edizione. Quale messaggio lascia questo gesto a cui prendono parte chef stellati e volti noti dello spettacolo?
In occasione delle festività natalizie, all’interno di alcuni Istituti penitenziari italiani, quest’anno ben 40, da molti anni vengono organizzati pranzi speciali per i detenuti con una peculiarità: ai fornelli, chef stellati e, a servire ai tavoli, cantanti, attori, comici, personaggi e volti noti del mondo dello spettacolo che, durante il pranzo, si esibiscono per rallegrare i commensali. Il nostro sforzo non è soltanto diretto a donare un giorno di festa a chi soffre l’esperienza dolorosa del carcere, ma è volto anche a richiamare l’attenzione di tutti e coinvolgere il maggior numero di persone per far sì che il carcere – come dice Papa Francesco – possa “diventare un luogo di inclusione e di stimolo per tutta la società, perché sia più giusta, più attenta alle persone”.
Ogni volta, i “Pranzi d’Amore” si concludono sempre e ovunque in un clima festoso, tra gli applausi allo chef e i saluti agli artisti e ai detenuti, lasciando nel cuore di tutti i presenti la speranza che, come afferma sempre il Santo Padre, “non può essere tolta a nessuno, perché è la forza per andare avanti; è la tensione verso li futuro per trasformare la vita; è una spinta verso li domani”.
Francesca Cipolloni